Il 3 aprile scorso il Tribunale di Roma, sez. XIII, giudice monocratico dott. Massimo Moriconi, ha emanato un’interessante ordinanza, che appare opportuno commentare, sia pur brevemente, in quanto rappresenta un’ulteriore applicazione del nuovo art. 185 – bis c.p.c., in tema di proposta transattiva o conciliativa formulata dal giudice in pendenza della lite.
In particolare, quel che più rileva ai fini di chi opera nel settore della mediazione civile, è la riaffermata cumulabilità dell’istituto processuale di cui sopra con il tentativo di mediazione svoltosi in quanto disposto dal giudice ai sensi dell’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010.
Nel caso di specie, il tentativo di mediazione era stato introdotto, d’ordine del giudice, dall’attore in proprio e come legale rappresentante della società Y, per la quale il commercialista dott. X (convenuto in giudizio) aveva, per alcuni anni, svolto attività professionali. Nel giudizio era poi stata chiamata la S.p.A. Z (assicurazione).
Disposto dal giudice il tentativo di mediazione ai sensi dell’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, il procedimento veniva introdotto presso un organismo di mediazione dall’attore, che invitava, ovviamente, sia il convenuto sia l’assicurazione intervenuta.
In detta sede, però, la mancata partecipazione del dott. X induceva quest’ultima, che da parte sua aveva invece aderito al procedimento, a ritenere inutile la prosecuzione del medesimo, che, dunque, è stato dichiarato dal mediatore infruttuosamente esperito e concluso.
Rileva il giudice come, in realtà, “…l’assicurazione avrebbe potuto procedere sostanzialmente nella mediazione al fine di giungere ad un accordo con l’attore, non vertendosi in un ambito di sostanziale litisconsorzio necessario, trattandosi di una domanda di risarcimento dei danni asseritamente causati dalla condotta negligente ed imperita del professionista.In quel caso infatti l’accordo (a due) sarebbe stato, in termini di diritto, perfettamente valido ed efficace fra le parti contraenti (fra le quali fino a quel momento non esisteva alcun rapporto giuridico, non sussistendo in questocaso azione diretta del danneggiato contro l’assicuratore del danneggiante); nonché utile per il danneggiante non comparso in mediazione e conveniente per l’assicuratore comparso e conciliante, sempre che nell’accordo di mediazione fossero state adottate alcune cautele”.
In effetti, il giudice sottolinea come gravi problemi sarebbero potuti successivamente insorgere a carico dell’assicurazione qualora l’attore e la stessa avessero semplicemente stipulato tra loro un accordo amichevole riguardante la mera negoziazione delle somme pretese.
Nell’ordinanza si osserva, in particolare, che “…sarebbe potuto accadere che l’attore avesse, dopo l’accordo in mediazione con l’assicurazione, legittimamente insistito nella causa ed eventualmente ottenuto la condanna del dottore commercialista convenuto al pagamento della differenza fra quanto preteso nella causa e la minor somma percepita dall’assicurazione con la quale aveva raggiunto l’accordo in mediazione.
In questo caso il professionista convenuto, che non aveva partecipato all’accordo di mediazione (che non era pertanto ad egli opponibile), avrebbe potuto, fondatamente, chiedere al giudice di essere garantito e sollevato da qualsiasi onere economico che dovesse incombergli, in virtù della manleva derivante dalla polizza assicurativa”.
Nell’ipotesi prospettata, appare evidente che, ove la domanda dell’attore nei confronti del professionista fosse stata accolta in misura maggiore di quanto stabilito nell’accordo conciliativo, l’assicurazione avrebbe concluso l’accordo medesimo del tutto inutilmente.
Non così, prosegue il Giudice, “…laddove, nell’accordo di mediazione, l’attore della causa (e istante della mediazione) abbia rinunciato a favore del professionista convenuto a qualsiasi pretesa economica ulteriore esorbitante la somma ottenuta dall’assicurazione come da accordo conciliativo. In tale modo tale accordo risulterebbe blindato e l’assicurazione non correrebbe alcun rischio nel giudizio, destinato a sicura cancellazione”.
Ciò posto, l’ordinanza sottolinea come sussistano tutti i presupposti per l’applicazione dell’art. 185 – bis c.p.c., introdotto, come si sa, dalla L. 98/2013, di conversione, con emendamenti, del D.L. 69/2013.
Infatti, la controversia non ha fatto emergere questioni di diritto complesse, e dubbi tali da richiedere analisi approfondite. In effetti, la condizione posta dall’art. 185 – bis, l’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, “…trova il suo fondamento logico nell’evidente dato comune che è meno arduo pervenire ad un accordo conciliativo o transattivo se il quadro normativo dentro il quale si muovono le richieste, le pretese e le articolazioni argomentative delle parti sia fin dall’inizio sufficientemente stabile, chiaro e in quanto tale prevedibile nell’esito applicativo che il Giudice ne dovrà fare. Anche la natura ed il valore della controversia in un accezione rapportata ai soggetti in causa, sono idonei a propiziare la formulazione di una proposta da parte del Giudice ai sensi della norma citata”.
Posta l’applicabilità dell’art. 185 – bis c.p.c. anche ai giudizi pendenti alla data della sua entrata in vigore, data la sua natura di norma processuale e quindi soggetta al principio tempus regit actum, il Giudice procede alla formulazione della proposta.
Viene infine fissata un’udienza alla quale le parti potranno anche non comparire, ove abbiano ritenuto di accordarsi sulla base della proposta stessa; viceversa, in caso di mancato accordo, potranno in quella sede fissare a verbale quali siano state le rispettive posizioni, anche al fine di consentire la eventuale valutazione giudiziale della loro condotta processuale ai sensi degli artt. 91 e 96, co. 3, c.p.c.