Tribunale di Firenze: mediazione con la presenza personale obbligatoria delle parti

E’ quanto ha statuito il Tribunale di Firenze con ordinanza del 19 marzo 2014 in una controversia di natura condominiale ove il Giudice ha ritenuto esservi i presupposti per ordinare l’invio in mediazione ai sensi dell’art. 5, comma II, del D.lgs 28/2010.
L’ordinanza specifica che, affinché l’ordine del giudice possa ritenersi correttamente eseguito, 1) la mediazione si svolgersi con la presenza personale delle parti e 2) l’ordine del giudice di esperire la mediazione deve avere riguardo al tentativo di mediazione vero e proprio.
Ritenere che l’ordine del giudice sia osservato quando i difensori si rechino dal mediatore e, ricevuti i suoi chiarimenti su funzione e modalità della mediazione (chiarimenti per i quali i regolamenti degli organismi prevedono tutti un tempo molto limitato), possano dichiarare il rifiuto di procedere oltre, appare una conclusione irrazionale e inaccettabile.
Non avrebbe ragion d’essere una dilazione del processo civile per un adempimento burocratico del genere. La dilazione si giustifica solo quando una mediazione sia effettivamente svolta e vi sia stata data un’effettiva chance di raggiungimento dell’accordo alle parti. Pertanto occorre che sia svolta una vera e propria sessione di mediazione. Altrimenti, si porrebbe un ostacolo non giustificabile all’accesso alla giurisdizione.
E questo può avvenire solo con la presenza personale delle parti in quanto l’istituto della mediazione civile mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto: questo implica necessariamente che sia possibile una interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore.

T- Firenze – mediazione- demandata- effettiva scarica il testo integrale dell’ordinanza.

Pubblicato in Senza categoria | Lascia un commento

TESTO COORDINATO DELLA NUOVA NORMATIVA SULLA MEDIAZIONE

Dal 20 Settembre 2013 sarà in vigore la nuova normativa sulla mediazione obbligatoria, così come modificata dall’art. 82 della L. 09.08.2013 n. 90, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 20 Agosto 2013.

Ecco il testo aggiornato del Dlgs. 28/2010.

Sintesi delle principali novità introdotte:

Competenza territoriale L’istanza di mediazione deve essere presentata presso un organismo nel luogo del giudice territorialmente competente per la controversia.
Obbligatorietà dell’assistenza legale Al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato.
Condizione di procedibilità Chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto, assistito dall’avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione.
Ordine del giudice, mediazione delegata Il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione.
Obbligatorietà di un primo incontro informativo Durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento.
Gratuità del primo incontro  in caso di mancato accordo Nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro, nessun compenso – ad esclusione delle spese di avvio e notifica – è dovuto per l’organismo di mediazione.
Sanzione automatica per la mancata partecipazione al primo incontro di mediazione Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall’articolo 5 (condizione di procedibilità, ordine del giudice e clausola contrattuale), non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo,al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per giudizio.
Esecutività immediata dell’accordo in presenza degli avvocati Ove tutte le parti aderenti alla mediazione siano assistite da un avvocatol’accordo che sia stato sottoscritto dalle parti e dagli stessi avvocati costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna e rilascio, l’esecuzione degli obblighi di fare e non fare, nonché per l’iscrizione di ipoteca giudiziale. Gli avvocati attestano e certificano la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico. In tutti gli altri casi l’accordo allegato al verbale è omologato, su istanza di parte, con decreto del presidente del tribunale, previo accertamento della regolarità formale e del rispetto delle norme imperative e dell’ordine pubblico.
Trascrizione degli accordi che accertano l’usucapione Si devono rendere pubblici col mezzo della trascrizione gli accordi di mediazione che accertano l’usucapionecon la sottoscrizione del processo verbale autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato.
Pubblicato in Senza categoria | Lascia un commento

Reintrodotta la mediazione obbligatoria

In data odierna è stato convertito in legge il c.d. Decreto del Fare (D.L. 21 giugno 2013, n. 69).

Trascorsi 30gg dalla pubblicazione della legge di conversione in Gazzetta Ufficiale, sarà obbligatorio effettuare un tentativo di mediazione prima di agire in giudizio.
Di seguito gli elementi di novità in materia di mediazione civile rispetto alla precedente normativa:

ESCLUSIONE DELLE CONTROVERSIE RELATIVE ALLA MATERIA DELLA R.C. AUTO DALLA OBBLIGATORIETA’

COMPETENZA TERRITORIALE
La domanda di mediazione è presentata mediante deposito di un’istanza presso un organismo nel luogo del giudice territorialmente competente per la controversia.

DURATA DI 4 ANNI DELL’OBBLIGATORIETA’ DELLA MEDIAZIONE CIVILE
La presente disposizione ha efficacia per i quattro anni successivi alla data della sua entrata in vigore.

OBBLIGATORIETA’ DELLA ASSISTENZA LEGALE IN MEDIAZIONE
Al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato.

IMMEDIATA ESECUTORIETA’ DEL VERBALE DI MEDIAZIONE IN PRESENZA DEGLI AVVOCATI
Ove tutte le parti aderenti alla mediazione siano assistite da un avvocato, l’accordo che sia stato sottoscritto dalle parti e dagli stessi avvocati costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna e rilascio, l’esecuzione degli obblighi di fare e non fare, nonché per l’iscrizione di ipoteca giudiziale. Gli avvocati attestano e certificano la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico. In tutti gli altri casi l’accordo allegato al verbale è omologato, su istanza di parte, con decreto del presidente del tribunale, previo accertamento della regolarità formale e del rispetto delle norme imperative e dell’ordine pubblico.

POSSIBILITA’ DI TRASCRIZIONE DEI VERBALI DI ACCERTAMENTO DELL’USUCAPIONE (modifica dell’art. 2643 c.c. Atti soggetti a trascrizione)
All’articolo 2643 del codice civile, dopo il numero 12) è inserito il seguente: 12 -bis – Gli accordi di mediazione che accertano l’usucapione con la sottoscrizione del processo verbale autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato.

AVVOCATI MEDIATORI DI DIRITTO
Gli avvocati iscritti all’albo sono di diritto mediatori. Gli avvocati iscritti ad organismi di mediazione devono essere adeguatamente formati in materia di mediazione e mantenere la propria preparazione con percorsi di aggiornamento teorico-pratici a ciò finalizzati, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 55-bis del codice deontologico forense.

PRIMO INCONTRO GRATUITO COL MEDIATORE
Durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento. Nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro, nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione.

In merito a quest’ultimo punto, la norma non distingue tra spese di avvio e indennità di mediazione: le prime dovute in misura fissa (40 € più iva e spese documentate), le altre variabili a seconda del valore della controversia.
A parere di chi scrive, le spese di avvio del procedimento sono da tenere distinte dalla indennità di mediazione che formano il compenso dell’organismo e del mediatore.
Le suddette spese di avvio, infatti, riguardano, in particolare, le spese dell’organismo per potere avviare il procedimento di mediazione e per gestire la partecipazione della parte chiamata anche al primo incontro col mediatore.
Si tratta, dunque, delle spese relative all’attività di segreteria prodromica a quella di mediazione vera e propria svolta dal mediatore. Conseguentemente, anche secondo le modifiche introdotte con il Decreto del Fare, dette spese fisse (40,00 oltre iva per ogni parte) devono continuare ad essere pagate tanto dalla parte istante, quanto dalla parte chiamata che eventualmente deciderà di partecipare al primo incontro col mediatore civile.
Ovviamente, si attenderanno gli interventi opportuni del Ministro anche su questo aspetto.

Pubblicato in Senza categoria | Lascia un commento

Mediazione civile: ecco cosa prevede il c.d. Decreto del Fare approvato dal CDM

Il 15 giugno, il consiglio dei ministri ha varato il c.d. “Decreto del fare” che contiene disposizioni per il ripristino della mediazione obbligatoria.

Si tratta di una delle misure che dovrebbero aiutare il paese a uscire dalla crisi consentendo un taglio dei processi di circa un milione nei prossimi cinque anni.

Nel dettaglio le principali novità:

1) la procedura di mediazione si svolge solo a seguito del consenso delle parti raccolto in un incontro preliminare informativo e di programmazione (art. 8, comma 1);

2) solo lo svolgimento dell’incontro preliminare informativo è  condizione di procedibilità (per le materie indicate) e deve svolgersi entro 30 giorni dal deposito dell’istanza a costi massimi molto contenuti (art. 17, comma 5 bis);

3) dalle materie per cui è previsto l’incontro di programmazione è stata esclusa la Rc auto;

4) il giudice può ordinare, e non solo invitare, in mediazione le parti;

5) ai fini dell’omologa, il verbale di accordo deve essere firmato da tutti gli avvocati che assistono le parti;

6) la durata massima dell’intera procedura è stata ridotta a 3 mesi;

7) gli avvocati sono mediatori di diritto.

In allegato il testo coordinato degli articoli del D.Lgs. 28/10 interessati.

Pubblicato in Senza categoria | Lascia un commento

MCM Mediazione – incentivi per la mediazione facoltativa

Al fine di incentivare lo sviluppo dello strumento della mediazione civile e commerciale, l’MCM Mediazione intende premiare il ricorso ad un tentativo di mediazione facoltativo prevedendo un trattamento economico estremamente vantaggioso.

Per tutte le istanze di mediazione facoltative presentate entro il 30 Marzo  2013, le indennità come da tariffario in vigore saranno corrisposte unicamente in caso di accordo, in caso di mancato accordo la tariffa sarà forfettaria di Euro 50,00, mentre in caso di assenza della controparte la procedura si chiuderà a titolo gratuito.

Lo svolgimento di una fase stragiudiziale per la risoluzione di una controversia presso la MCM Mediazione, rappresenta la possibilità di sviluppare un’alternativa alle lungaggini del sistema giudiziario ordinario, sfruttando la professionalità dei mediatori e
degli arbitri unitamente all’efficienza dell’apparato organizzativo.

Scarica il testo integrale della promozione.

La Segreteria di MCM Mediazione

Pubblicato in Senza categoria | Lascia un commento

Depositata la Sentenza n. 272 della Corte Costituzionale

Le motivazioni della Corte Costituzionale confermano l’incostituzionalità del tentativo obbligatorio di mediazione per il solo eccesso di delega. Ogni altro profilo resta assorbito. Rimane in vigore la disciplina, gli effetti e gli sgravi fiscali delle mediazioni volontarie, delegate e per clausola contrattuale. Confermato quindi il vizio formale della mancata previsione della cd “obbligatorietà” nella legge delegante.

Testo integrale della sentenza.

SENTENZA N. 272

ANNO 2012

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 5, comma 1, primo, secondo e terzo periodo, e 16, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali), dell’articolo 2653, primo comma, numero 1), del codice civile, dell’articolo 16 del decreto ministeriale 18 ottobre 2010, n. 180, come modificato dal decreto ministeriale 6 luglio 2011, n. 145 (Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell’articolo 16 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28), promossi dal Giudice di pace di Parma con ordinanza del 1° agosto 2011, dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio con ordinanza del 12 aprile 2011, dal Giudice di pace di Catanzaro con due ordinanze del 1° settembre e del 3 novembre 2011, dal Giudice di pace di Recco con ordinanza del 5 dicembre 2011, dal Giudice di pace di Salerno con ordinanza del 19 novembre 2011, dal Tribunale di Torino con ordinanza del 24 gennaio 2012 e dal Tribunale di Genova con ordinanza del 18 novembre 2011, rispettivamente iscritte ai nn. 254 e 268 del registro ordinanze 2011 ed ai nn. 2, 19, 33, 51, 99 e 108 del registro ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 51 e 54, prima serie speciale, dell’anno 2011 e nn. 5, 8, 11, 15, 22 e 23, prima serie speciale, dell’anno 2012.

Visti gli atti di costituzione dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura – OUA ed altri, della «Associazione degli Avvocati Romani» ed altra, del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Firenze, dell’AIAF, Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori, dell’Unione Nazionale delle Camere Civili, dell’Organismo di mediazione ADR Center s.p.a., nonché gli atti di intervento della Associazione nazionale mediatori e conciliatori, della Società italiana conciliazione mediazione e arbitrato s.r.l. (SIC&A), del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano, di Assomediazione – Associazione italiana organismi privati di mediazione e di formazione per la mediazione, di Unioncamere – Unione Italiana delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura ed altri, del Consiglio Nazionale Forense, della ADR Accorditalia s.r.l. e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 23 ottobre 2012 e nella camera di consiglio del 24 ottobre 2012 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;

uditi gli avvocati Marilisa D’Amico e Lotario Dittrich per il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Milano, Maria Cristina Stravaganti per la Società italiana conciliazione mediazione e arbitrato s.r.l. (SIC&A), Francesco Franzese per l’Assomediazione – Associazione italiana. organismi privati di mediazione e di formazione per la mediazione, Beniamino Caravita di Toritto per la Unioncamere – Unione Italiana delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura ed altri, Massimo Luciani per il Consiglio Nazionale Forense, Giorgio Orsoni per l’Organismo Unitario dell’Avvocatura – OUA ed altri e per il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Firenze, Giuliano Scarselli per l’AIAF – Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori, Giampiero Amorelli per «l’Associazione degli Avvocati Romani» ed altra, Antonio De Notaristefani Di Vastogirardi per l’Unione Nazionale delle Camere civili, Rodolfo Cicchetti per l’Organismo di mediazione ADR Center s.p.a. e l’avvocato dello Stato Maurizio Di Carlo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

1.— Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (d’ora in avanti, TAR), con ordinanza del 12 aprile 2011 (r.o. n. 268 del 2011), ha sollevato, in riferimento agli articoli 24 e 77 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 1, primo, secondo e terzo periodo, e dell’articolo 16, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali).

Il TAR premette che l’ordinanza in questione è stata emessa nell’ambito del procedimento relativo ai ricorsi, successivamente riuniti, promossi entrambi contro il Ministro della giustizia e il Ministro dello sviluppo economico; che il primo ricorso è stato proposto dall’Organismo unitario dell’avvocatura italiana – OUA, in persona del presidente avv. Maurizio de Tilla, il quale agisce anche in proprio, dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, in persona del presidente avv. Francesco Caia, il quale agisce anche in proprio; dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torre Annunziata, in persona del presidente avv. Francesco Torrese, il quale agisce anche in proprio; dall’Unione Regionale dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati della Campania, in persona del presidente avv. Franco Tortorano, il quale agisce anche in proprio; dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lagonegro, in persona del presidente avv. Rosa Marino; dal Consiglio dell’ordine degli avvocati di Larino, in persona del presidente avv. Marco d’Errico, il quale agisce anche in proprio; dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Campobasso, in persona del presidente avv. Demetrio Rivellino, il quale agisce anche in proprio; da Mario Pietrunti, da AIAF – Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori, in persona del presidente avv. Milena Pin; da Filippo Pucino, Paola Pucino, Angelo Pucino, Carmelo Maurizio Sergi, Federica Eminente, Sabrina Sifo, Salvatore Walter Pompeo, Eugenio Bisceglia, Vitangelo Mongelli, Vincenzo Papaleo, Salvatore Di Cristofalo, Giovanni Zambelli, Giuseppe Di Girolamo, Agostino Maione, Claudio Acampora, Luigi Ernesto Zanoni; che nel giudizio a quo, ad adiuvandum, sono intervenuti l’Associazione degli avvocati romani, l’Associazione agire e informare, i Consigli dell’Ordine degli Avvocati di Firenze e di Salerno mentre, ad opponendum, sono intervenuti l’Associazione avvocati per la mediazione, Lorenza Morello e Alberto Mascia, ADR Center s.p.a., l’Associazione italiana dei dottori commercialisti ed esperti contabili e l’Unione nazionale giovani dottori commercialisti; che il secondo ricorso è stato proposto dalla Unione Nazionale delle Camere civili (UNCC); che oggetto dei ricorsi è la domanda di annullamento del decreto del Ministro della giustizia, adottato di concerto con il Ministro per lo sviluppo economico, n. 180 del 2010, avente ad oggetto il «Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell’articolo 16 del decreto legislativo n. 28 del 2010», e «la dichiarazione della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli articoli 5 e 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, in riferimento agli art. 24, 76 e 77 Cost.».

In particolare, il rimettente, dopo essersi soffermato sulla possibilità della diretta impugnabilità del regolamento innanzi al giudice amministrativo e sul quadro normativo di riferimento, espone i motivi dei ricorsi.

1.1.— Con riguardo al primo ricorso, il giudice a quo riferisce che i ricorrenti lamentano l’assenza, nel d.m. n. 180 del 2010, di criteri volti ad individuare ed a selezionare gli organismi di mediazione in ragione dell’attività squisitamente giuridica che essi andrebbero a svolgere, e che sarebbe richiesta sia dalla normativa comunitaria, sia dalla legge delega 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile). Sul punto i ricorrenti pongono in rilievo che, a livello comunitario, l’art. 4 della direttiva 21 maggio 2008, n. 2008/52/CE (Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale), dispone che la mediazione «sia gestita in maniera efficace, imparziale e competente in relazione alle parti», mentre l’art. 60, lettera b), della legge delega citata, tra i principi e criteri direttivi, richiede di prevedere che la mediazione sia svolta da organismi professionali ed indipendenti, stabilmente destinati all’erogazione del servizio di conciliazione.

A sostegno della censura i ricorrenti osservano che l’art. 4 del regolamento, nel disciplinare l’iscrizione, a domanda, degli organismi di mediazione che possono essere costituiti sia da enti pubblici che da enti privati, si limita a prevedere, al comma 2, una serie di parametri di tipo amministrativo-economico-finanziario, tra cui la capacità finanziaria ed organizzativa, il possesso di polizza assicurativa, la trasparenza amministrativa e contabile e, poi, a prescrivere, al comma 3, una verificazione di tipo «aggiuntivo» sui requisiti di qualificazione dei mediatori, che viene demandata al responsabile del procedimento, senza essere correlata alle competenze giuridiche che sarebbero oggettivamente richieste dall’attività di mediazione.

Sotto tale profilo, i ricorrenti escludono che il criterio selettivo, di cui lamentano la carenza, possa essere costituito dalla previsione di cui all’art. 4, comma 3, del regolamento impugnato il quale prevede, alla lettera a), che il mediatore debba essere in possesso di un titolo di studio non inferiore al diploma di laurea universitaria triennale, oppure debba essere iscritto ad un ordine o ad un collegio professionale e, alla lettera b), che il mediatore abbia una specifica formazione ed uno specifico aggiornamento almeno biennale, acquisiti presso gli enti di formazione regolati dal successivo art. 18 del d.m. citato. Tali elementi, essendo sprovvisti di una specifica professionalità, delineerebbero un’area generica attinente al solo ambito della formazione culturale, che risulterebbe priva di quegli agganci ad una precipua qualificazione e perizia nell’ambito giuridico professionale, invece necessaria in ragione della tipologia della prestazione che deve essere resa.

Ciò, ad avviso dei ricorrenti, varrebbe ancor di più alla luce dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e delle materie ivi previste, in relazione alle quali l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale, ovvero si pone come alternativa al sistema giudiziale o quale funzione stragiudiziale di soddisfazione di pretese giuridiche. L’assunto, per cui il procedimento di mediazione dovrebbe essere gestito con l’ausilio di persone svolgenti la professione legale, si fonderebbe sui seguenti dati: il procedimento di mediazione non conclusosi positivamente incide, ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. n. 28 del 2010 ed ai sensi dell’art. 60, lettera p), della legge n. 69 del 2009, sulle spese del successivo giudizio; l’art. 13 del d.lgs. citato intitolato «spese processuali» prevede, infatti, che quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponda interamente al contenuto della proposta conciliativa, alla quale la parte vincitrice non abbia aderito, il giudice è obbligato ad escludere la ripetizione delle spese sostenute ed a condannarla, invece, al rimborso delle spese sopportate dal soccombente; il verbale dell’accordo conclusivo del procedimento di mediazione, non contrario all’ordine pubblico o a norme imperative, e sottoposto ad omologazione, ha efficacia di titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale, ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. citato; l’avvocato ha l’obbligo, all’atto del conferimento dell’incarico, di informare il proprio assistito della possibilità di avvalersi della mediazione, ciò ai sensi dell’art. 4, comma 3, del d.lgs. citato e dell’art. 60, lettera p), della legge n. 69 del 2009, nonostante lo svolgimento della relativa attività sia demandato ad altre categorie professionali.

Il TAR riferisce ancora che i ricorrenti pervengono alla conclusione secondo cui la mancata previsione di idonei criteri di valutazione della competenza degli organismi di mediazione porrebbe il regolamento impugnato in palese contrasto «non tanto con l’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, ma piuttosto con i principi generali e l’insieme delle disposizioni dell’intero impianto legislativo considerato».

Aggiunge che, ad avviso dei ricorrenti, gli artt. 5 e 16 del d.lgs. citato non sfuggirebbero a censure di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 77 e 24 Cost.

In particolare l’art. 5, nel prevedere che l’esperimento del procedimento di mediazione sia condizione di procedibilità, rilevabile anche di ufficio, della domanda giudiziale in riferimento alle controversie in esso indicate, precluderebbe l’accesso diretto alla giustizia, disattendendo le previsioni del principio e criterio direttivo di cui all’art. 60, comma 3, lettera a), della legge-delega, che lo tutela. L’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, ponendo quali criteri di selezione degli organismi abilitati alla mediazione la «serietà ed efficienza», liberalizzerebbe il settore, contravvenendo sia all’art. 4 della direttiva 2008/52/CE, sia all’art. 60, comma 3, lettera b), della legge citata, che fanno riferimento ai criteri della competenza e della professionalità.

1.2.— Con riferimento, invece, al ricorso n. 11235 del 2010, il rimettente si sofferma sui tre motivi di impugnazione e sulle eccezioni di illegittimità costituzionale, ritenendo rilevante soltanto quella sollevata con riferimento al primo motivo (illegittimità derivata dalla illegittimità degli artt. 5 e 17 – recte: 16 – del d.lgs. n. 28 del 2010, in relazione agli artt. 24, 76 e 77 Cost.); anche la ricorrente UNCC sostiene che il legislatore sia incorso in eccesso di delega là dove ha previsto l’obbligatorietà del procedimento di mediazione e l’improcedibilità del giudizio introdotto senza il previo esperimento della mediazione, entrambi non previsti dalla legge delega.

Ciò premesso, il TAR osserva come punto centrale della rilevanza della questione di legittimità costituzionale, «nonché qualificante espressione dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio, alla luce delle prime due doglianze di cui al ricorso», sia la «dedotta omissione, da parte dell’art. 4 dell’impugnato regolamento, dei criteri volti a delineare i requisiti attinenti alla specifica professionalità giuridico-processuale del mediatore».

L’illegittimità di tale omissione – ad avviso del rimettente – andrebbe apprezzata alla luce delle previsioni contenute nell’art. 4 della direttiva 2008/52/CE e nell’art. 60 della legge n. 69 del 2009.

L’art. 16 del citato decreto legislativo, di cui il regolamento costituisce attuazione, avrebbe trascurato la valenza di detti requisiti, quelli appunto di competenza e professionalità, sostituendoli con altri, quelli di serietà ed efficienza, che il regolamento impugnato ha fatto propri, ma che non soddisferebbero le esigenze considerate dal legislatore comunitario e da quello nazionale delegante.

Osserva il rimettente come i requisiti di competenza e professionalità sarebbero, invece, insopprimibili, soprattutto se si considera che, per un vasto ventaglio di materie, l’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, anch’esso sospettato di illegittimità costituzionale, rende l’esperimento della mediazione condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Il giudice a quo, poi, al fine di risolvere in via ermeneutica il problema della sovrapponibilità dei concetti di competenza e professionalità, nonché serietà ed efficienza, non trascura il tentativo di sottoporre l’art. 60 della legge n. 69 del 2009 e l’art. 16 del d.lgs. citato ad una interpretazione costituzionalmente orientata, tenendo conto della necessità di una stretta continuità e coerenza delle disposizioni, anche in relazione all’art. 4 della direttiva 2008/52/CE.

Il TAR, però, ritiene tale interpretazione non praticabile, in quanto essa «non esaurirebbe che in misura molto limitata l’ambito delle questioni sottoposte a giudizio, lasciando aperto l’interrogativo circa il ruolo che l’ordinamento giuridico nazionale intenda effettivamente affidare alla mediazione, là dove è proprio la puntuale individuazione di tale ruolo ad essere imprescindibilmente pregiudiziale all’apprezzamento dei requisiti che è legittimo richiedere al mediatore o da cui è legittimamente consentito prescindere».

Secondo il rimettente, infatti, «una cosa è la costruzione della mediazione come strumento cui lo Stato in un vasto ambito di materie obbligatoriamente e preventivamente rimandi per l’esercizio del diritto di difesa in giudizio; altra cosa è la costruzione della mediazione come strumento generale normativamente predisposto, di cui lo Stato incoraggi o favorisca l’utilizzo, lasciando pur tuttavia impregiudicata la libertà nell’apprezzamento dell’interesse del privato ad adirla ed a sopportare i relativi effetti e costi».

Ad avviso del rimettente, dunque, l’esame delle doglianze proposte in relazione al regolamento n. 180 del 2010 non potrebbe prescindere dall’accertamento della correttezza, in raffronto ai criteri della legge-delega e ai precetti costituzionali, tenuto conto delle disposizioni comunitarie, delle scelte operate dal legislatore delegato, e in particolare dalla verifica della correttezza delle seguenti disposizioni: dell’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, il quale ha conformato gli organismi di conciliazione a qualità che attengono essenzialmente all’aspetto della funzionalità generica e che sono scevri da qualsiasi riferimento a canoni tipologici o professionali di carattere qualificatorio, ovvero strutturale; dell’art. 5 del d.lgs. ora citato, che ha configurato, per le materie ivi previste, l’attività dei mediatori come insopprimibile fase processuale, cui altre norme del decreto assicurano effetti rinforzati e in quanto tale suscettibile in ogni suo sviluppo o di conformare definitivamente i diritti soggettivi da essa coinvolti, o di incidervi anche là dove ne residui la giustiziabilità nelle sedi istituzionali e si intenda adire la giustizia ordinaria; dell’intero d.lgs. n. 28 del 2010 nel quale si rinvengono, ad avviso del rimettente, elementi che farebbero emergere due scelte di fondo: l’una, mirante alla de-istituzionalizzazione e de-tecnicizzazione della giustizia civile e commerciale nelle materie stesse, e l’altra alla enfatizzazione di un procedimento para-volontario di componimento delle controversie.

Tali scelte, poi, non risulterebbero in armonia con un’altra opzione fatta propria dal decreto delegato: è, infatti, previsto che l’atto, il quale conclude la mediazione, sottoposto ad omologazione, possa acquistare efficacia di titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale (art. 12 del d.lgs. citato), rientrando a pieno titolo tra gli atti aventi gli stessi effetti giuridici tipici delle statuizioni giurisdizionali, là dove nel corso della mediazione, ed ai sensi del decreto legislativo stesso, il profilo della competenza tecnica del mediatore sbiadisce e anche il diritto positivo viene in evidenza solo sullo sfondo, come cornice esterna ovvero come generale limite alla convenienza delle posizioni giuridiche in essa coinvolte (divieto di omologare accordi contrari all’ordine pubblico o a norme imperative, art. 12 del d.lgs.).

Il rimettente ritiene necessario che l’interpretazione dell’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, propedeutica all’esame dell’impugnata disposizione di cui all’art. 4 del regolamento, sia correlata con quanto previsto dall’art. 5 dello stesso decreto, «il cui combinato disposto costituisce il vero perno della regolazione delegata».

Il Collegio ritiene, dunque, che le prime tre disposizioni dell’art. 5 del d.lgs. citato si porrebbero in contrasto con l’art. 77 Cost., in quanto non possono essere ascritte all’art. 60 della legge delega, atteso che non è possibile rilevare alcun elemento che consenta di ritenere che la regolazione della materia andasse effettuata nei sensi delle dette previsioni; e questo per i motivi di seguito indicati: a) nessuno dei criteri e principi direttivi previsti e nessun’altra disposizione di detto articolo assumerebbe espressamente l’intento deflattivo del contenzioso giurisdizionale; b) nessuno dei criteri o principi configurerebbe l’istituto della mediazione quale fase pre-processuale obbligatoria: detto tema non potrebbe ritenersi rientrare nell’ambito di libertà, ovvero nell’area di discrezionalità connessa alla legislazione delegata, in quanto non costituirebbe né un mero sviluppo delle scelte effettuate in sede di delega, né una fisiologica attività di riempimento o di coordinamento normativo, e ciò sia che si tratti di recepire la direttiva comunitaria n. 2008/52/CE, sia che si tratti della riforma del diritto civile.

Inoltre, il rimettente osserva come, tenuto conto del silenzio serbato dal legislatore delegante sullo specifico tema, sarebbe stato necessario che l’art. 60 della legge citata avesse lasciato trasparire elementi in tal senso univoci e concludenti.

Secondo il rimettente, poi, si dovrebbe escludere che l’art. 60 della legge n. 69 del 2009 con la locuzione di cui al comma 2, ovvero regolare la riforma «nel rispetto e in coerenza con la normativa comunitaria», e con il principio e criterio direttivo posto alla lettera c) del comma 3, ovvero «disciplinare la mediazione, nel rispetto della normativa comunitaria», possa essere inteso quale delega al Governo a compiere qualsiasi scelta occasionata dalla direttiva più volte citata, che il Governo non è stato neanche chiamato a recepire.

Il TAR si sofferma, poi, sul rapporto tra la direttiva 2008/52/CE e la norma di delega, ponendo in rilievo le seguenti disposizioni: in primo luogo, la scelta compiuta dall’art. 60 della legge citata, ossia quella di estendere le normative comunitarie sulla mediazione anche ai procedimenti ricadenti nell’ordinamento nazionale (ciò alla luce dell’ottavo Considerando) non limitandola solo alle controversie transfrontaliere; la disposizione di cui all’art. 3, lettera a), della direttiva stessa, secondo cui gli Stati devono valutare se il procedimento di mediazione debba essere «avviato dalle parti, suggerito od ordinato da un organo giurisdizionale o prescritto dal diritto di uno Stato membro»; l’art. 5, paragrafo 2, secondo cui la direttiva lascia «impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure soggetto a incentivi o sanzioni, sia prima che dopo l’inizio del procedimento giudiziario», tenendo conto del limite costituito dalla necessità che «non impedisca alle parti di esercitare il diritto di accesso al sistema giudiziario» (art. 5, comma 2, della direttiva citata).

Pertanto, osserva il rimettente, le ricadute della scelta estensiva dell’istituto della mediazione, consistente nel prevederne l’applicazione anche alle controversie oggetto dei procedimenti interamente ricadenti nell’ordinamento interno, sono molteplici ed attengono alle varie modalità con cui tale estensione, salvaguardando l’accesso alla giustizia, può essere effettuata nei singoli ordinamenti ed in primis all’opzione di rendere il ricorso alla mediazione «prescritto dal diritto», quindi obbligatorio e «soggetto a sanzioni».

Ad avviso del TAR, se anche l’art. 60 della legge delega avesse avuto un intento integralmente recettivo della direttiva n. 2008/52/CE, il silenzio del legislatore delegante su tali ultime opzioni non potrebbe avere, alla luce della doverosa interpretazione della delega ai sensi degli artt. 24 e 77 Cost., «il significato di assentire la meccanica introduzione nell’ordinamento statale delle opzioni comunitarie che, rispetto al diritto di difesa, appaiono le più estreme, ovvero la “prescrizione di diritto” per talune materie dell’obbligatorietà del ricorso alla mediazione e la predisposizione della “massima sanzione” per il suo eventuale inadempimento, qual è l’improcedibilità rilevabile anche di ufficio come, al contempo, ha fatto l’art. 5 del decreto delegato».

Il rimettente osserva, ancora, come nessun elemento decisivo possa trarsi dal principio e criterio direttivo previsto dalla lettera a) del comma 3, dell’art.60, della legge delega, là dove dispone che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili «senza precludere l’accesso alla giustizia», in quanto il legislatore, utilizzando tale ultima espressione, avrebbe inteso soltanto rispettare un principio assoluto e primario dell’ordinamento nazionale (art. 24 Cost.) e di quello comunitario.

Il giudice a quo ritiene, infatti, che, se da un lato sia vero che potrebbe non ritenersi precluso ex se l’accesso alla giustizia dalla previsione di una fase pre-processuale obbligatoria, perché, anche se così conformata, essa lascerebbe aperta la facoltà di adire la via giurisdizionale, sarebbe altresì vero che «non tutto ciò che è in via generale permesso all’autorità delegante può ritenersi anche consentito alla sede delegata».

Ciò premesso, ad avviso del rimettente, pur potendosi ammettere che le prime tre disposizioni dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. citato, isolatamente considerate, non siano in contrasto con l’art. 24 Cost., alla stessa conclusione potrebbe non pervenirsi tenendo conto degli effetti derivanti dal loro coordinamento con altre disposizioni dello stesso decreto legislativo ed in particolare con l’art. 16 di esso.

Posto, dunque, che i criteri e principi direttivi finora considerati appaiano neutrali al fine di verificare la rispondenza dell’art. 5 del d.lgs. alla legge delega, il rimettente osserva come ben due principi e criteri direttivi depongano, invece, a favore proprio della previsione della facoltatività della procedura.

È, in primo luogo, posta in rilievo la lettera c) del comma 3, dell’art. 60, della legge delega, la quale prevede che la mediazione sia disciplinata anche attraverso l’estensione delle disposizioni di cui al decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366).

Il richiamo al d.lgs. n. 5 del 2003, ad avviso del giudice a quo, farebbe escludere che la scelta del carattere obbligatorio della mediazione possa essere ascritta alla legge-delega; l’art. 40, comma 6, del d.lgs. n. 5 del 2003 (ora abrogato dall’art. 23 d.lgs. n. 28 del 2010), infatti, solo se «il contratto ovvero lo statuto della società prevedano una clausola di conciliazione e il tentativo non risulti esperito» stabiliva che «il giudice su istanza della parte interessata proposta nella prima difesa dispone la sospensione del procedimento pendente davanti a lui fissando un termine di durata compresa tra trenta e sessanta giorni per il deposito dell’istanza di conciliazione davanti ad un organismo ovvero a quello indicato dal contratto o dallo statuto».

Da ciò conseguirebbe che il modello legale valorizzato dall’art. 60 della legge delega, mediante il richiamo al d.lgs. n. 5 del 2003, sarebbe quello delineato da norme di fonte volontaria privata, contratto o statuto sociale, nel senso che sarebbe rimesso ad un momento volontario privato, cioè alla facoltà della parte che vi ha interesse e non alla forza cogente della legge, far constatare nel giudizio già avviato, ed entro termini stabiliti, la sussistenza di una clausola conciliativa ed il mancato esperimento della conciliazione.

Il rimettente osserva che nulla muta considerando che il decreto delegato n. 28 del 2010, al comma 2 dello stesso art. 5, affianca al meccanismo sospetto di illegittimità costituzionale un meccanismo coincidente con quello di cui al d.lgs. n. 5 del 2003, in forza del quale è il giudice adito, anche in sede di appello, che, valutati una serie di elementi, invita le parti a procedere alla mediazione e differisce la decisione giurisdizionale: tale disposizione, infatti, tiene comunque «fermo quanto previsto dal comma 1».

Ad avviso del TAR, il comma 2 ora menzionato farebbe rilevare maggiormente la incisività della diversa scelta compiuta dal legislatore delegato al comma 1 dello stesso articolo, di subordinare, nelle materie ivi previste, il diritto di difesa in giudizio all’esperimento della mediazione, rendendo ancora più pressante l’esigenza che di una siffatta scelta si individui il preciso fondamento nella legge delega.

In secondo luogo, il rimettente pone in rilievo la lettera n) del più volte citato art. 60 della legge delega; tale disposizione prevede il dovere dell’avvocato di informare il cliente, prima della instaurazione del giudizio, della «possibilità» e non dell’obbligo di avvalersi della conciliazione.

Al riguardo il giudice a quo rileva che la possibilità è, ovviamente, diversa dalla obbligatorietà e l’accentuazione di tale differenza non sarebbe superflua, vertendo nel campo della deontologia professionale, ovvero in un complesso di obblighi e doveri la cui inosservanza può determinare conseguenze pregiudizievoli in base all’ordinamento civile (risarcimento del danno), amministrativo (sanzioni disciplinari) e pubblicistico (art. 4, comma 4, del d.lgs. n. 28 del 2010), che richiedono l’esatta individuazione del precetto presidiato dalle sanzioni.

Infatti, l’art. 4 del d.lgs. citato differenzia, al comma 3, l’ipotesi in cui l’avvocato omette di informare il cliente della «possibilità» di avvalersi della mediazione, da quella in cui l’omissione informativa concerne i casi in cui l’espletamento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale; ciò anche se, poi, il medesimo comma 3 dell’art. 4 non diversifichi la sanzione concernente le due ipotesi, entrambe ricondotte all’unica categoria della «violazione degli obblighi di informazione» e all’annullabilità del contratto intercorso tra l’avvocato e l’assistito «nonostante la maggiore pregiudizievolezza della seconda».

Il TAR si sofferma, poi, sulle difese formulate dalle amministrazioni resistenti, secondo cui lo schema procedimentale seguito sarebbe quello dell’art. 46 della legge 3 maggio 1982, n. 203 (Norme sui contratti agrari), in tema di controversie agrarie.

Al riguardo, il Collegio ritiene che tale argomentazione non sia da condividere, in quanto la risalente legge ora citata, che configura un meccanismo in forza del quale il previo esperimento del tentativo di conciliazione assume la condizione di presupposto processuale, la cui carenza preclude al giudice adito di pronunciare nel merito della domanda, oltre a concernere le limitatissime (rispetto alle materie di cui all’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010) ipotesi di contratti agrari, non è menzionata in alcuna parte della legge delega che invece, come più volte rilevato, richiama la diversa fattispecie del già citato d.lgs. n. 5 del 2003.

Alla luce di quanto argomentato, il TAR rimettente ritiene che l’art. 5, comma 1, e segnatamente il primo, il secondo ed il terzo periodo, nonché l’art. 16, comma 1, del d.lgs. citato, là dove dispone che abilitati a costituire organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione debbano essere gli enti pubblici e privati che diano garanzie di serietà ed efficienza, siano in contrasto con gli artt. 24 e 77 Cost.

In particolare, la violazione dell’art. 24 Cost. sussisterebbe «nella misura in cui [dette disposizioni] determinano, nelle considerate materie, una incisiva influenza da parte di situazioni preliminari e pregiudiziali sull’azionabilità in giudizio di diritti soggettivi e sulla successiva funzione giurisdizionale, su cui lo svolgimento della mediazione variamente influisce. Ciò in quanto esse non garantiscono, mediante un’adeguata conformazione della figura del mediatore, che i privati non subiscano irreversibili pregiudizi derivanti dalla non coincidenza degli elementi loro offerti in valutazione per assentire o rifiutare l’accordo conciliativo, rispetto a quelli suscettibili, nel prosieguo, di essere evocati in giudizio».

Sussisterebbe il contrasto anche con l’art. 77 Cost., atteso il silenzio serbato dal legislatore delegante in tema di obbligatorietà del previo esperimento della mediazione al fine dell’esercizio della tutela giudiziale in determinate materie, nonché tenuto conto del grado di specificità di alcuni principi e criteri direttivi fissati dall’art. 60 della legge n. 69 del 2009, che risultano in contrasto con le disposizioni stesse.

I principi e criteri direttivi di cui alle lettere c) e n) del comma 3, dell’art. 60 della legge citata, ad avviso del rimettente, porterebbero ad escludere che l’obbligatorietà del previo esperimento della mediazione, al fine dell’esercizio della tutela giudiziale in determinate materie, possa rientrare nella discrezionalità affidata alla legislazione delegata, quale mero sviluppo o fisiologica attività di riempimento della delega, anche tenendo conto della sua ratio e della sua finalità, nonché del contesto normativo comunitario al quale è ricollegabile.

2.— Con atto depositato in data 20 dicembre 2011, si sono costituiti nel giudizio di legittimità costituzionale l’Organismo Unitario dell’Avvocatura Italiana – OUA, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torre Annunziata, l’Unione Regionale dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati della Campania, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lagonegro, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Larino, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Campobasso, in persona dei rispettivi presidenti pro tempore, i quali agiscono anche in proprio, chiedendo che la questione sia dichiarata fondata.

Gli esponenti, nel ribadire le argomentazioni del TAR, rilevano, con riferimento alla violazione dell’art. 77 Cost., che l’art. 60 della legge delega al comma 3, lettera a), nel prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili «senza precludere l’accesso alla giustizia», non introdurrebbe un aspetto neutrale (come sembra, invece, affermare il TAR), ma piuttosto avrebbe richiesto che il procedimento di mediazione non fosse costruito quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, pena una pesante limitazione alla immediata accessibilità alla giustizia ed una altrettanto incisiva compromissione dell’effettività e tempestività della tutela giudiziale.

Al di là della stessa previsione della legge-delega, nell’ambito dell’ordinamento comunitario, la direttiva 2008/52/CE, nel disciplinare alcuni aspetti della mediazione civile e commerciale, al quattordicesimo Considerando, ha stabilito che l’istituto della mediazione non debba essere configurato in modo da impedire alle parti «di esercitare il loro diritto di accesso al sistema giudiziario». La previsione dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, pertanto, non troverebbe aderenza non solo nel contesto normativo nazionale, ma anche in quello comunitario.

Quanto al contrasto con l’art. 24 Cost., le parti osservano come la Corte costituzionale, sin dagli anni ’50, abbia ritenuto che detta norma vada intesa non solo nel senso di apprestare la possibilità, in capo ai cittadini, di far valere le proprie ragioni in un giudizio, ma ancor più di garantire la difesa tecnica (a tal fine è richiamata la sentenza n. 46 del 1957).

Ebbene, tale difesa non sarebbe assicurata nel caso di specie, in cui l’accesso alla giustizia non resterebbe soltanto subordinato e, dunque, ritardato dall’esperimento obbligatorio di un tentativo di conciliazione, ma sarebbe gestito da soggetti non adeguatamente formati e privi della necessaria competenza tecnico-giuridica, mentre l’intero procedimento di mediazione sarebbe, invece, costruito sul presupposto della piena conoscenza, competenza e perizia nelle discipline giuridiche.

In tal senso rileverebbero non solo gli artt. 12 e 13 del d.lgs. n. 28 del 2010, ma anche l’art. 8, comma 5, del medesimo decreto, nella parte in cui prevede che la mancata partecipazione al procedimento possa valere come argomento di prova nel successivo eventuale processo. Sarebbe evidente, dunque, che le parti debbano essere rese edotte da un soggetto competente ed esperto delle conseguenze processuali delle loro scelte; ne consegue che tale soggetto non potrebbe che essere un avvocato.

Secondo gli esponenti, poiché l’istituto della mediazione si pone l’obiettivo di addivenire ad una composizione delle rispettive posizioni giuridiche, al pari del sistema giurisdizionale dovrebbe consentire ai cittadini di fruire delle medesime garanzie di tutela.

3.— Con atto depositato in data 12 gennaio 2012, si sono costituite in giudizio «l’Associazione degli Avvocati Romani» e l’Associazione «Agire e informare», parti intervenute ad adiuvandum nel giudizio a quo.

Dette associazioni, nel riservarsi di presentare memorie illustrative e nel fare integralmente proprie le motivazioni poste a sostegno dell’ordinanza di rimessione, rappresentano che, dopo tale ordinanza, con risoluzione del Parlamento europeo in data 13 settembre 2011, circa l’attuazione della direttiva sulla mediazione negli Stati membri, pur apprezzando lo sforzo intrapreso in ambito nazionale per introdurre una disciplina dell’istituto, si è «ciò nonostante sottolinea[to] che la mediazione dovrebbe essere promossa come una forma di giustizia alternativa praticabile, a basso costo e rapida, piuttosto che come un elemento obbligatorio della procedura giudiziaria».

Ad avviso delle intervenienti, ciò confermerebbe il dubbio di legittimità costituzionale delle disposizioni censurate, le quali in concreto rendono la mediazione «elemento obbligatorio» della procedura giudiziaria, però sottoposta a modalità liberalizzate, nei sensi dell’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, contrastanti con l’art. 24 Cost. e non conformi ai principi e ai criteri direttivi fissati dalla legge delega.

4.— Con atto depositato in data 12 gennaio 2012, si è costituita nel giudizio di legittimità costituzionale l’Organismo di mediazione ADR Center s.p.a., parte intervenuta ad opponendum nel giudizio a quo la quale, riservandosi di presentare memorie e produrre documenti, ha chiesto di voler dichiarare manifestamente infondata ed inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata con ordinanza del 12 aprile 2011 dal TAR Lazio.

5.— Con atto depositato in data 13 gennaio 2012, si è costituita nel giudizio di legittimità costituzionale l’Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori, chiedendo che la questione sia dichiarata fondata.

Ad avviso dell’esponente la legge delega, nell’indicare che la mediazione non avrebbe dovuto precludere l’accesso alla giustizia, intendeva far riferimento non alla possibilità di adire il giudice dopo la mediazione, «cosa scontata e ovvia», bensì alla necessità che essa non condizionasse il diritto di azione e, quindi, non fosse costruita come condizione di procedibilità. Si osserva come sia circostanza del tutto evidente che, dopo il procedimento di mediazione, la parte possa adire il giudice, poiché sarebbe impensabile che nell’ordinamento, dopo una condizione di procedibilità, non si dia alla parte il diritto alla tutela giurisdizionale.

Né, in senso contrario, potrebbe obiettarsi che il problema non si pone in considerazione della brevità del termine di quattro mesi, cosicché la condizione di procedibilità sarebbe compensata dal termine breve fissato nell’art. 6 del d.lgs. n. 28 del 2010; il termine di quattro mesi era già stato fissato nella lettera q) del comma 3, dell’art. 60 della legge delega, la quale al tempo stesso richiedeva che la mediazione fosse tale da non precludere l’accesso alla giustizia.

Per quanto concerne l’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, l’AIAF osserva come l’art. 24 Cost. non possa dirsi rispettato, in quanto la figura del mediatore non è stata conformata in modo da garantire alle parti una adeguata informazione.

6.— Con atto depositato in data 13 gennaio 2012, è intervenuto nel presente giudizio di costituzionalità il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Firenze, interveniente ad adiuvandum nel giudizio a quo, il quale nel ribadire e far proprie le argomentazioni formulate dal TAR rimettente, ha chiesto che la questione sia dichiarata fondata.

7.— Con atto depositato in data 13 gennaio 2012, si è costituita nel giudizio di legittimità costituzionale l’Unione Nazionale delle Camere Civili la quale, svolgendo argomentazioni analoghe a quelle del TAR, ha chiesto che la questione sia dichiarata fondata.

8.— Con atto depositato in data 17 gennaio 2012, si sono costituiti nel presente giudizio il Ministro della giustizia e il Ministro dello sviluppo economico, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate non fondate.

I detti ministri rilevano come la mediazione obbligatoria sia prevista e ammessa dalla direttiva comunitaria, alla quale dà attuazione il d.lgs. n. 28 del 2010 in forza della delega di cui all’art. 60 della legge n. 69 del 2009, norma che richiama espressamente tale normativa comunitaria; deve, pertanto, escludersi che il legislatore sia incorso nel denunciato vizio di eccesso di delega.

A tal fine è evocata la sentenza n. 276 del 2000 in materia di tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro.

In detta occasione la Corte costituzionale affermò l’insussistenza del vizio di eccesso di delega, benché la legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa), non prevedesse l’obbligatorietà della conciliazione. La Corte costituzionale affermò, altresì, l’assenza di contrasto con l’art. 24 Cost. in virtù del principio per cui «la tutela del diritto di azione non comporta l’assoluta immediatezza del suo esperimento, ben potendo la legge imporre oneri finalizzati a salvaguardare interessi generali, con le dilazioni conseguenti». In quel caso, osservano i resistenti nel giudizio a quo, la Corte individuò tali «interessi generali» sia nell’evitare che l’incremento delle controversie attribuite al giudice ordinario in materia di lavoro provocasse un sovraccarico dell’apparato giudiziario, sia nel favorire «la composizione preventiva della lite che assicura alle situazioni sostanziali un soddisfacimento più immediato rispetto a quelle conseguite attraverso il processo».

Ciò posto, la difesa dello Stato ritiene che «gli interessi generali» devono ritenersi perseguiti anche dalla norma in esame, specialmente con riferimento al secondo di detti «interessi», ove si consideri che l’elemento che caratterizza la mediazione è dato dalla finalità di assistenza delle parti nella ricerca di una composizione non giudiziale del conflitto, basata sul rendere complementari gli interessi e non sul distribuire torti e ragioni.

Anche per quanto concerne la violazione dell’art. 24 Cost., l’Avvocatura osserva come detta censura sveli un approccio non corretto all’istituto in esame.

La mediazione ed il processo ordinario di cognizione, ad avviso dell’esponente, si muovono su piani completamente diversi che non interferiscono tra loro (se non sotto il profilo della disciplina delle spese giudiziali e degli argomenti di prova che il giudice può desumere dalla mancata partecipazione, senza giustificato motivo, al procedimento di mediazione) ed è errato confondere il piano del diritto di azione garantito dall’art. 24 Cost. (così come dal diritto sovranazionale), con il piano della mediazione che non è «rinuncia alla giurisdizione», ma semplicemente un modo attraverso il quale le parti, in presenza di una lite insorta o che sta per insorgere, risolvono la stessa cercando un punto di equilibrio tra i contrapposti interessi. Ne consegue che imporre il tentativo di conciliazione non significa né rinunciare alla giurisdizione, né ostacolarla: le parti non sono tenute ad accordarsi, mentre i tempi contenuti entro i quali il tentativo di conciliazione deve svolgersi non possono pacificamente rappresentare un ostacolo alla giurisdizione.

Quanto al timore che i diritti «siano definitivamente conformati», l’Avvocatura precisa che il mediatore, sentite le diverse prospettazioni del conflitto, ha il compito di avviare il dialogo che la conflittualità può avere impedito e ciò allo scopo di aiutare a trovare un accordo che non costituisce accertamento della verità, ma individuazione di un punto di equilibrio soddisfacente per entrambe le parti.

La circostanza, poi, che l’accordo sia anche titolo esecutivo e titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale non può indurre a concludere che detto accordo non possa essere equiparato, come si è ora fatto, a qualsiasi altro contratto o negozio. L’accordo è titolo esecutivo così come lo sono la cambiale, l’assegno bancario, gli altri titoli stragiudiziali che non presuppongono necessariamente un accertamento di verità.

Quanto alla questione di legittimità costituzionale che attiene all’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, l’Avvocatura osserva, in via preliminare, che la censura deve ritenersi superata per effetto dell’entrata in vigore del decreto del Ministro della giustizia 6 luglio 2011, n. 145 (Regolamento recante modifica al decreto del Ministro della giustizia 18 ottobre 2010, n. 180, sulla determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché sull’approvazione delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell’articolo 16 del decreto legislativo n. 28 del 2010), il quale ha modificato il decreto n. 180 del 2010, per cui gli atti devono essere rimessi al giudice a quo per una nuova valutazione della rilevanza della questione di legittimità costituzionale.

In ogni caso, l’Avvocatura afferma che se anche non fosse stato introdotto il correttivo citato la censura sarebbe comunque infondata. Premesso che la norma denunciata [recte: art. 18 del d.m. n. 180 del 2010] prevede per il mediatore «un percorso formativo non inferiore a cinquanta ore» e un percorso di aggiornamento «non inferiore a diciotto ore», modulando l’iter formativo in modo da assicurare «elevati livelli di formazione», si osserva come l’accordo al quale mira la mediazione sia una sistemazione negoziale, che può anche avere la veste di una transazione, con la quale le parti dettano una regola per disciplinare il loro rapporto e con la quale superano il conflitto a prescindere dal riconoscimento di torti e ragioni.

Al mediatore, quindi, non sarebbe richiesto di pronunciarsi sulla fondatezza di una pretesa in forza di una norma da applicare; costui potrà formulare una proposta, ma saranno, poi, le parti a realizzare l’atto dispositivo espressione della loro autonomia negoziale. Al mediatore non sarebbe richiesta necessariamente una specifica preparazione tecnico-giuridica, così come è lasciata alla libera determinazione delle parti la stipulazione di contratti in materia di diritti disponibili, per la cui conclusione non è richiesta alcuna assistenza tecnica.

Ad avviso dell’Avvocatura, infine, «professionalità dell’organismo» (efficiente organizzazione e servizio) e «competenza del mediatore» sono aspetti del tutto diversi che non possono essere confusi, come invece sembra fare il rimettente.

9.— Il Tribunale di Genova, con ordinanza del 18 novembre 2011 (r.o. n. 108 del 2012), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 2653, primo comma, numero 1), del codice civile; nonché questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 16 del d.m. n. 180 del 2010.

Con provvedimento del 4 ottobre 2012 la discussione del presente giudizio, già prevista per la camera di consiglio del 24 ottobre 2012, è stata anticipata all’udienza del 23 ottobre 2012.

In punto di fatto il rimettente espone di essere investito di una controversia in tema di servitù prediali.

Ciò premesso, il rimettente, dopo aver rilevato la mancata instaurazione del procedimento di mediazione e dopo aver analiticamente riportato le eccezioni di illegittimità costituzionale proposte dall’attrice, solleva il dubbio di costituzionalità nei termini di seguito indicati.

Per quanto attiene alla questione dedotta con riferimento all’art. 2653, cod. civ., il rimettente osserva che le domande giudiziali concernenti i diritti reali possono essere trascritte, ai sensi dell’art. 2653, primo comma, numero 1), cod. civ. La sentenza pronunciata contro il convenuto indicato nella trascrizione ha effetto anche contro coloro che hanno acquistato diritti dal medesimo in base ad un atto trascritto dopo la trascrizione della domanda.

Nel caso di specie, i ricorrenti hanno formulato una domanda diretta all’accertamento dell’esistenza, in favore del loro fondo ed a carico di quello dei convenuti, di una servitù di passaggio, nonché all’accertamento della violazione del diritto a loro spettante in base ad essa ed alla eliminazione degli effetti del denunciato abuso. Si tratterebbe, dunque, di un’azione rientrante nell’art. 1079 cod. civ., in relazione alla quale, a sensi dell’art. 2653, primo comma, numero 1), cod. civ., è richiesta la trascrizione.

Il Tribunale osserva, altresì, come la mancata trascrizione della domanda giudiziale, a prescindere dalla trascrizione del titolo costitutivo della servitù, importerebbe l’inopponibilità della sentenza nei confronti di chi acquisti il fondo servente nel corso del processo e che abbia trascritto il suo titolo «senza che possa rilevare che a suo tempo sia stato regolarmente trascritto l’atto costitutivo della servitù, con la conseguenza che il terzo acquirente è legittimato a proporre contro la detta sentenza pronunciata in giudizio, a cui è rimasto estraneo, l’opposizione di terzo ex art. 404 cod. proc. civ.» (è evocata la sentenza della Corte di cassazione del 23 maggio 1991, n. 5852).

Ciò posto, il rimettente, in punto di non manifesta infondatezza, osserva che non è possibile trascrivere la domanda di mediazione in quanto l’art. 2653 cod. civ. contiene un elenco tassativo ed ha riguardo, unicamente, alle domande giudiziali; né sarebbe possibile trascrivere il verbale di mediazione, essendo prevista unicamente la possibilità di trascrivere l’accordo conclusivo, previa autenticazione delle sottoscrizioni da parte di un pubblico ufficiale a tanto autorizzato.

Da ciò conseguirebbe, ad avviso del Collegio, che per i diritti reali la mediazione dovrebbe essere sempre doppiata dal giudizio ordinario, nella forma tradizionale o nelle forme dell’art. 702-bis cod. proc. civ., atteso che, in caso contrario, l’attore vittorioso non potrebbe comunque trascrivere direttamente né il verbale di avvenuta positiva mediazione, se non previa autenticazione delle sottoscrizioni da parte di un pubblico ufficiale a ciò abilitato, né soprattutto giovarsi dell’effetto cosiddetto prenotativo della domanda di mediazione, non trascrivibile.

Da ciò conseguirebbe, inoltre, che l’attore dovrebbe presentare istanza di mediazione, a pena di improcedibilità della domanda, iniziare comunque un giudizio trascrivendo la domanda giudiziale, ed a prescindere dall’esito della mediazione, chiedere una pronunzia giurisdizionale di merito; ciò perché non potrebbe né trascrivere direttamente il verbale di mediazione, né soprattutto giovarsi dell’effetto prenotativo della domanda, in quanto tale effetto sarebbe limitato ai casi in cui la trascrizione della domanda stessa sia seguita dalla pronuncia di una sentenza o di un provvedimento giurisdizionale analogo alla stessa, come appunto l’ordinanza ai sensi dell’art. 702-ter cod. proc. civ.

La conseguenza in questi casi sarebbe che il soggetto procedente si troverebbe costretto a sopportare sia i costi della mediazione, sia il pagamento del contributo unificato per l’instaurazione del giudizio, senza in ogni caso potersi giovare dell’effetto deflattivo della procedura di mediazione.

Il rimettente, poi, si sofferma sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 16 del d.m. n. 180 del 2010, con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. per avere essi previsto una mediazione obbligatoria di tipo oneroso. Il carattere oneroso, quale risultante dal combinato disposto delle norme indicate, contrasterebbe con l’art. 24 Cost. in quanto condizionerebbe al pagamento di una somma di denaro l’accesso al giudice.

La conclusione, secondo cui la previsione della mediazione obbligatoria onerosa sia in contrasto con l’art. 24 Cost., troverebbe conferma nel principio espresso nella sentenza n. 67 del 1960, secondo cui la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato del procedimento, indipendentemente da ogni differenza di condizioni personali e sociali.

Il giudice a quo ritiene non manifestamente infondata anche la censura rivolta nei confronti dell’art. 5 del d.lgs. citato e dell’art. 16 del d.m., là dove prevedono «che il solo convenuto possa non aderire al procedimento di mediazione» in quanto introducono una disparità di trattamento tra attore e convenuto, atteso che per l’attore non è prevista la possibilità di rinunciare ad avvalersi del servizio, incorrendo sempre nel pagamento sia delle spese di avvio, sia delle spese di mediazione.

Il rimettente, infine, ritiene la sussistenza di un altro profilo di illegittimità dell’art. 5 del d.lgs. nella parte in cui prevede la mediazione obbligatoria solo per alcuni gruppi di materie e non per altre, sia pure caratterizzate dalla disponibilità dei diritti sottostanti.

Sarebbe il caso della mediazione immobiliare, sottratta alle materie per le quali è prevista la mediazione obbligatoria o, con riferimento al caso di specie, alla domanda volta a dichiarare la nullità o pronunciare l’annullamento di un contratto costitutivo di servitù.

Tale domanda, non rientrando nei blocchi di materie di cui all’art. 5 del d.lgs. citato, potrebbe essere direttamente azionata in giudizio, attenendo ad un contratto per il quale non è prevista la mediazione obbligatoria (questa, infatti, è prevista solo per i contratti assicurativi, bancari e finanziari); al contrario, la domanda di accertamento o declaratoria di servitù, involgendo diritti reali, rientrerebbe appieno nelle materie soggette a mediazione obbligatoria. Il rimettente ritiene che tale differenziazione non sia giustificata da alcuna ragionevole scelta di politica legislativa.

10.— Con atto del 26 giugno 2012, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.

In primo luogo, la difesa statale eccepisce l’inammissibilità, per difetto di rilevanza, della questione di legittimità costituzionale concernente l’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte in cui prevede l’obbligatorietà della mediazione solo in relazione a determinate controversie, in quanto la causa oggetto del giudizio principale concerne una domanda di accertamento di servitù, senza dubbio rientrante tra quelle per le quali l’art. 5 del d.lgs. citato prevede la mediazione come obbligatoria.

In ogni caso, si osserva come la questione sia, altresì, non fondata versandosi in tema di scelte discrezionali del legislatore, che possono essere non condivisibili, ma non viziate da irragionevolezza.

Ciò posto, la difesa dello Stato ritiene non fondate le censure relative all’art. 5 del d.lgs. citato e all’art. 2653 cod. civ., in quanto le finalità cui mirano i due istituti sono diverse; pertanto il soggetto che vuole conseguire gli effetti della trascrizione della sua domanda, ovvero l’efficacia cosiddetta prenotativa della stessa, deve necessariamente anche iscrivere la causa a ruolo per trascrivere detta domanda, ma non per questo la norma deve essere ritenuta affetta da illegittimità costituzionale.

Per quel che concerne la doglianza mossa con riferimento al carattere oneroso della mediazione, la difesa dello Stato ne deduce la non fondatezza, richiamando il principio, affermato nella decisione di questa Corte n. 114 del 2004, secondo cui non può ragionevolmente ritenersi estraneo alla finalità del miglior andamento della giustizia un costo avente la funzione di fornire al cittadino un servizio finalizzato alla soluzione della lite e che persegue l’interesse pubblico di restituire alla decisione dell’autorità giudiziaria il ruolo di extrema ratio.

La mediazione – ad avviso dell’Avvocatura – mira ad evitare che ogni controversia si trasformi in contenzioso giudiziario e ciò in ossequio al principio di proporzionalità nell’utilizzo delle risorse giudiziarie che ha una ricaduta sia sui costi a carico della collettività, sia sul principio costituzionale della ragionevole durata del processo.

La difesa dello Stato, poi, non condivide l’opinione secondo cui, nel caso della mediazione, vi sarebbe un esborso non destinato allo Stato, ma ad un organismo anche di natura privata; al riguardo, l’Avvocatura rileva che il nostro sistema giudiziario si basa sulla pressoché totale obbligatorietà della difesa tecnica in giudizio e non conosce forme di difesa «pubblica» ed, ancora, che i due termini «obbligatoria e onerosa» riferiti alla mediazione possono convivere non solo nel nostro sistema costituzionale, ma anche in quello comunitario.

È, altresì, richiamata la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea nella quale, dopo avere qualificato «legittimi obiettivi di interesse generale […] una definizione spedita delle controversie nonché un decongestionamento dei tribunali», si è affermato che rispetto a questi obiettivi «non esiste un’alternativa meno vincolante alla predisposizione di una procedura obbligatoria, dato che la introduzione di una procedura meramente facoltativa non costituisce uno strumento altrettanto efficace per la realizzazione di detti obiettivi» (sentenza del 28 marzo 2010 nelle cause riunite da C-317 a C-320/08).

Tutto ciò, peraltro, non esime il legislatore dallo strutturare l’onere economico di cui si tratta in termini di ragionevolezza ed al riguardo la difesa dello Stato ritiene che il canone di ragionevolezza sia stato rispettato. In proposito, la difesa dello Stato osserva che gli importi minimi delle indennità per ciascuno scaglione di riferimento non solo sono derogabili (art. 16 del d.m. n. 180 del 2010, come modificato dal decreto ministeriale n. 145 del 2011), ma nei casi di mediazione prevista come condizione di procedibilità l’importo massimo delle spese di mediazione deve essere ridotto di un terzo per i primi sei scaglioni e fino alla metà per i restanti quattro. Sono previsti, inoltre, degli incentivi: tutti gli atti, documenti e provvedimenti sono esenti da bollo, spese, tasse e/o diritti, mentre il verbale di accordo è esente da imposta di registro sino al valore di 50.000,00 euro.

In caso di successo, inoltre, vi è un credito di imposta per entrambe le parti sino a 500,00 euro, credito che si riduce alla metà in caso di insuccesso (art. 20).

Infine, ad avviso della difesa dello Stato, il costo di un procedimento giudiziario è molto più elevato, anche senza considerare la possibilità di tre gradi di giudizio.

Con riferimento alla censura sollevata in relazione alla violazione dell’art. 3 Cost., in quanto si introdurrebbe una disparità di trattamento tra attore e convenuto, la difesa dello Stato ritiene che la circostanza secondo cui l’onere economico dell’avvio e della mediazione rimangono a carico del solo attore, in caso di mancata comparizione del chiamato, è «la naturale conseguenza di condotte processuali diverse: né potrebbe prevedersi un obbligo per il chiamato in mediazione di comparire alla stessa, così come non potrebbe prevedersi l’obbligo per il convenuto di costituirsi in giudizio».

Peraltro, la mancata partecipazione del chiamato senza giustificato motivo, ad avviso dell’Avvocatura, non rimarrebbe priva di conseguenze, anche di rilievo economico, posto che tale condotta sarebbe valutata dal giudice ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ., così come stabilito dall’art. 8, comma 5, del d.lgs. n. 28 del 2010.

11.— Il Giudice di pace di Parma, con ordinanza del 1° agosto 2011 (r.o. n. 254 del 2011), ha sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 77 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, primo, secondo e terzo periodo, e dell’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010.

Il rimettente premette di dover giudicare in una causa civile avente ad oggetto una «domanda di pagamento in materia di locazione di beni mobili, rientrante nella previsione normativa di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, per la quale è previsto il preliminare procedimento di mediazione a pena di improcedibilità».

II giudice a quo dà atto che l’attrice ha omesso di svolgere il detto procedimento ed ha eccepito alcune questioni di legittimità costituzionale di cui dà conto nell’ordinanza.

Ciò premesso, il rimettente, dopo aver riepilogato il quadro normativo di riferimento, ritiene che le disposizioni sopra indicate risultino in contrasto con l’art. 24 Cost., «in quanto realizzano un meccanismo di determinante influenza di situazioni preliminari sulla tutela giudiziale dei diritti, posto che l’art. 5 in discorso ha configurato, nelle materie previste, l’attività degli organismi di conciliazione come imprescindibile e per ciò stesso, idonea a conformare definitivamente i diritti soggettivi coinvolti».

In particolare, l’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010 «ha delineato gli organismi di conciliazione con riferimento a qualità nell’ottica della mera funzionalità degli stessi, omettendo qualsiasi riferimento a criteri di qualificazione tecnica o professionale»; sicché, «in difetto di una adeguata definizione della figura del mediatore, le norme in discorso potrebbero essere fonte di pregiudizi a danno dei privati, i quali in sede giudiziale potrebbero usufruire di elementi di valutazione diversi da quelli a loro offerti nella fase preliminare del procedimento di mediazione».

Il rimettente ritiene, inoltre, che dette disposizioni siano in contrasto anche con l’art. 77 Cost., posto che «il legislatore delegante non ha formulato alcuna indicazione circa l’obbligatorietà del previo esperimento del procedimento di mediazione»; ed anzi alla luce dei principi e criteri direttivi della legge delega, di cui alle lettere c) e n) del comma 3 dell’art. 60, dovrebbe escludersi che l’obbligatorietà del procedimento di mediazione possa rientrare nella discrezionalità tipica della legislazione delegata «quale attività di attuazione e sviluppo della delega, nella debita considerazione del contesto normativo comunitario di riferimento».

12.— Con atto depositato in data 23 dicembre 2011, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha formulato argomentazioni identiche a quelle esposte nell’atto di intervento, da parte del Ministro della giustizia e del Ministro dello sviluppo economico, in relazione alla questione sollevata con r.o. n. 268 del 2011.

13.— Il Giudice di pace di Recco, con ordinanza del 5 dicembre 2011 (r.o. n. 33 del 2012), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale «dell’art. 5 del decreto legislativo n. 28 del 2010 e art. 16 D.M. n. 180/10, da soli ed anche in combinato disposto, nelle parti e per il motivo che creano ostacoli all’esercizio dell’azione, che eliminano la tutela giudiziaria per i meno abbienti, che ledono il principio di ragionevole durata del processo e che creano disparità di trattamento per situazioni analoghe».

In punto di fatto, il rimettente riferisce che deve pronunziare in «una controversia non priva di interesse e nemmeno di agevole soluzione che tuttavia in quanto basata su risultanze documentali sarebbe stata decisa in quindici giorni».

Ciò premesso, il giudice a quo ritiene che le disposizioni indicate siano in contrasto con l’art. 24 Cost. «in relazione ai tempi del processo», in quanto il termine di quattro mesi «appare decisamente al di fuori della soglia di tollerabilità», ciò ancor più se si prendono in considerazione altri procedimenti concernenti tentativi obbligatori di conciliazione, prevedenti termini di espletamento più brevi: 30 giorni in materia di subfornitura e telecomunicazione, 60 giorni in materia di lavoro e contratti agrari, 90 giorni in tema di diritto d’autore; nonché in relazione alla disciplina dei costi della mediazione, sottolineando come «tra l’esigenza di non rendere economicamente troppo gravoso ai cittadini l’accesso alla tutela giurisdizionale e l’esigenza, pur particolarmente avvertita, di individuare strumenti idonei a decongestionare gli uffici giudiziari attraverso lo sfoltimento del carico di lavoro, prevalenza debba avere la prima».

Dette disposizioni sarebbero, altresì, in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto la disciplina dei costi della mediazione introdurrebbe una disparità di trattamento tra meno abbienti ed abbienti; infatti, sebbene sia stato previsto il beneficio del patrocinio a spese dello Stato, la disparità di trattamento, comunque, rimarrebbe in relazione a quei soggetti che, pur non rientrando tra coloro che possono beneficiare del patrocinio, versano in condizioni economiche non agiate per cui, dopo aver già sostenuto un costo per una causa, un ulteriore costo per una mediazione dall’esito incerto diverrebbe insostenibile e finirebbe per costituire un deterrente dall’agire in giudizio.

Ad avviso del rimettente, ancora, sussisterebbe il contrasto con l’art. 111 Cost. sotto il profilo della ragionevole durata del processo, in quanto l’esperimento della mediazione dilaterebbe i tempi di esso senza che ciò sia giustificato da esigenze specifiche ed anche perché l’esperimento obbligatorio della mediazione dovrebbe effettuarsi non solo con riferimento alla domanda principale, ma anche in relazione ad ogni singola azione proposta nel corso del processo.

Dette disposizioni, infine, violerebbero l’art. 3 Cost., per irragionevolezza della previsione della obbligatorietà della mediazione avente ad oggetto le controversie di competenza del Giudice di pace, dal momento che, nel procedimento avanti al detto giudice, è già previsto il tentativo obbligatorio di conciliazione.

14.— Con atto depositato in data 3 aprile 2012, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.

La difesa dello Stato, dopo avere riassunto il quadro normativo di riferimento, si sofferma sulle censure del rimettente, ponendo in rilievo come l’elemento che caratterizza la mediazione sia dato dalla finalità di assistenza delle parti nella ricerca di una composizione non giudiziale del conflitto, basata sul rendere complementari gli interessi e non sul distribuire torti o ragioni.

Per quanto attiene alle doglianze concernenti l’onerosità della mediazione, la difesa dello Stato invoca la sentenza di questa Corte n. 114 del 2004, la quale richiama principi già illustrati nelle pronunce n. 522 del 2002 e n. 333 del 2001, ribadendo le argomentazioni precedentemente svolte.

In ogni caso, l’Avvocatura rileva che la mediazione non può definirsi «onerosa» per le parti se raffrontata con il costo di un giudizio ordinario e con la speditezza nell’esercizio dell’azione; si tratterebbe, peraltro, di costi estremamente contenuti soprattutto se si considera che il procedimento consente di realizzare un ben maggiore risparmio ed, inoltre, che è gratuito per i cittadini i quali possono usufruire del patrocinio a spese dello Stato.

15.— Il Giudice di pace di Catanzaro, con ordinanza del 1° settembre 2011 (r.o. n. 2 del 2012), ha sollevato, in riferimento agli artt. 24, 76 e 77 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte in cui prevede che l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale, in ordine alle controversie nelle materie ivi indicate, e dell’art. 16 del d.m. n. 180 del 2010, in relazione all’art. 3 Cost.

In punto di fatto, il rimettente premette di essere investito del procedimento civile promosso al fine di accertare il diritto ad ottenere la restituzione di due libri concessi in comodato e nel quale la convenuta ha eccepito, in via preliminare, la improcedibilità della domanda per omesso esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010.

Ciò posto, il rimettente riferisce che la controversia riguarda un contratto di comodato, sicché rientra nelle ipotesi previste dall’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 ed in relazione alle quali il previo esperimento del tentativo di conciliazione è condizione di procedibilità; che la proposizione della domanda è successiva all’entrata in vigore della predetta disposizione ed, inoltre, che il convenuto ha tempestivamente sollevato l’improcedibilità della domanda stessa.

In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente osserva come l’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, concependo il procedimento di mediazione come condizione di procedibilità, rischierebbe di compromettere l’effettività della tutela giudiziale; né si potrebbe argomentare che non vi è preclusione ad accedere alla giustizia dal momento che, una volta attivato il procedimento di mediazione e trascorso il termine di quattro mesi, l’accesso alla giustizia sarebbe possibile, in quanto «è cosa ovvia» che dopo il procedimento di mediazione la parte possa adire il giudice perché «nel nostro sistema è impensabile che non si dia alla parte il diritto alla tutela giurisdizionale».

Il giudice a quo prosegue osservando come l’art. 60 della legge delega, con la formula «senza precludere l’accesso alla giustizia», farebbe riferimento alla necessità che la mediazione non condizioni il diritto di azione e che quindi non sia costruita come condizione di procedibilità. Né la brevità del termine potrebbe indurre a conclusioni diverse, visto che detto termine era già stato fissato nella legge delega ed in particolare alla lettera q) del comma 3 dell’art. 60.

Ad avviso del rimettente, dunque, l’obbligatorietà del procedimento di mediazione, nelle ipotesi di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, violerebbe l’art. 60 della legge delega n. 69 del 2009.

Inoltre, il giudice a quo solleva la questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 24 Cost., in quanto se il tentativo obbligatorio di conciliazione ha un costo e questo costo non è meramente simbolico, come appunto previsto dalla disposizione indicata, ciò significa che l’esercizio della funzione giurisdizionale è subordinato al pagamento di una somma di denaro.

Vi sarebbe, dunque, il contrasto con i principi affermati nella sentenza n. 67 del 1960 di questa Corte, nella quale è stato stabilito che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi e che la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, il quale deve trovare attuazione uguale per tutti, indipendentemente da ogni differenza di condizioni personali e sociali.

Il giudice rimettente richiama, poi, il noto orientamento della giurisprudenza costituzionale che distingue tra oneri «razionalmente collegati alla pretesa dedotta in giudizio, allo scopo di assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione», da ritenere consentiti, e quelli che, invece, «tendono alla soddisfazione di interessi del tutto estranei alle finalità predette» i quali, conducendo al risultato «di precludere od ostacolare gravemente l’esperimento della tutela giurisdizionale», incorrono «nella sanzione dell’incostituzionalità» (sono richiamate le sentenze n. 522 del 2002 e n. 333 del 2001).

Secondo il rimettente, dunque, l’art. 5 del d.lgs. si porrebbe in contrasto con l’art. 24 Cost. e con «tutti i parametri di costituzionalità», in quanto prevede un esborso che non può essere ricondotto né al tributo giudiziario, né alla cauzione; che non è di modestissima, né di modesta, entità; che non va allo Stato, bensì ad un organismo che potrebbe avere anche natura privata. Si tratterebbe, poi, di un esborso che non potrebbe considerarsi nemmeno «razionalmente collegato alla pretesa dedotta in giudizio, allo scopo di assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione», poiché questi esborsi sarebbero da rinvenire solo nelle cauzioni e nei tributi giudiziari, non in altre cause di pagamento.

Il giudice a quo ritiene non manifestamente infondata anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 4, del d.m. n. 180 del 2010, concernente i criteri di determinazione dell’indennità, nella parte in cui consente «solo alla parte convenuta di non aderire al procedimento, ma non anche alla parte attrice, che si vedrebbe, comunque, obbligata al procedimento di mediazione per poter far valere in giudizio un suo diritto»; ciò sarebbe in violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo del principio di uguaglianza, perché «pone su piani diversi, e tratta diversamente, la parte attrice».

Le dette disposizioni, inoltre, si porrebbero in contrasto anche con gli artt. 76 e 77 Cost. in quanto violerebbero i principi e criteri direttivi di cui alla lettera a) del comma 3 dell’art. 60 della legge n. 69 del 2009, secondo cui il Governo nell’esercizio della delega doveva prevedere «che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia».

16.— Con atto depositato in data 21 febbraio 2012, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, il quale ha formulato argomentazioni identiche a quelle esposte nei precedenti atti di intervento.

17.— Il Giudice di pace di Salerno, con ordinanza del 19 novembre 2011 (r.o. n. 51 del 2012), ha sollevato, in riferimento agli articoli 24, 70, 76 e 77 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte in cui prevede che l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Il rimettente riferisce che, con atto del 7 novembre 2011, l’attrice ha citato in giudizio una società di assicurazioni, al fine di ottenere il risarcimento delle lesioni subite ed il rimborso delle spese mediche sostenute a seguito di un sinistro stradale, verificatosi il 17 gennaio 2011. In particolare, l’attrice ha affermato di aver stipulato con la convenuta una polizza infortuni avente ad oggetto la copertura di eventuali danni subiti dal conducente a seguito di sinistro stradale e ha concluso per la condanna della detta compagnia di assicurazioni al pagamento delle somme quantificate nell’atto introduttivo del giudizio. La convenuta si è costituita in giudizio ed ha eccepito l’improponibilità della domanda per violazione delle disposizioni di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, assumendo che non era stato esperito il tentativo obbligatorio di conciliazione.

Ciò premesso, il rimettente ritiene che «una condizione di procedibilità di una domanda giudiziaria, ex art. 24 Cost., può essere introdotta in maniera esclusiva dal legislatore e non da un organo governativo che avrebbe potuto farlo soltanto se ne fosse stato autorizzato dalla legge di delega».

Secondo il giudice a quo l’eccesso si configurerebbe «là dove non è stata recepita la parte in cui [la legge delega] escludeva che il procedimento potesse costituire condizione di procedibilità della domanda ovvero fosse in grado di precludere, per tutta la sua durata, l’accesso alla giustizia ordinaria», ciò in quanto «unico intento» della legge di delega era quello di creare un «organismo deflattivo per la giustizia e non certamente di favorire la creazione di un elemento ostativo al suo accesso».

Il rimettente osserva, ancora, che «tutto quanto previsto dal decreto in più rispetto al portato della legge delega potrebbe aprire ad una gestione della giustizia ad opera dei privati, come tali non legittimati dalla Costituzione a svolgere detta alta funzione e soprattutto non dotati del rigoroso tecnicismo richiesto».

Al riguardo, è richiamato l’orientamento della giurisprudenza costituzionale secondo cui il sistema di giustizia «condizionata» è ammissibile solo nel caso in cui l’eccezione al principio «dell’accesso immediato alla giurisdizione» si presenti come ragionevole e risponda ad un interesse generale, purché non vengano imposti oneri tali da rendere impossibile o eccessivamente difficile far valere le proprie ragioni; oneri che, ad avviso del rimettente, sarebbero anche quelli di carattere economico.

L’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, pertanto, si porrebbe in contrasto con l’art. 24 Cost. in quanto «ha reso la mediazione una condizione di procedibilità della domanda giudiziaria, negando per tutto il tempo della sua durata l’accesso alla giustizia e soprattutto non prevedendo alcun mezzo per i meno abbienti per attivare il procedimento della media conciliazione»; inoltre, «in caso di fallimento del procedimento di media-conciliazione le spese sostenute per adire l’organismo definito deflattivo non potranno essere ripetute e rimarranno esclusivamente a carico delle parti, con evidenti conseguenze economiche afflittive per le classi sociali meno agiate».

18.— Il Giudice di pace di Catanzaro, con ordinanza del 3 novembre 2011 (r.o. n. 19 del 2012), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 77 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 16 del d.m. n. 180 del 2010.

In punto di fatto, il rimettente riferisce che la materia oggetto della domanda concerne una richiesta di indennizzo derivante da contratto assicurativo e che, pertanto, rientra nelle ipotesi in cui l’esperimento della mediazione è condizione di procedibilità.

Ciò posto, il giudicante ritiene che l’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nel prevedere che l’esperimento del procedimento di mediazione sia condizione di procedibilità della domanda giudiziale, si ponga in contrasto con gli artt. 24 e 77 Cost. in quanto, mentre l’art. 60 della legge n. 69 del 2009, al comma 3, lettera a), prescrive che nell’esercizio della delega il Governo si attenga, tra gli altri, al seguente criterio e principio direttivo «[…] a) prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia», l’art. 5 del d.lgs. citato concepisce il procedimento di mediazione quale momento propedeutico alla domanda giudiziale, «rischiando di compromettere l’effettività della stessa tutela giudiziale e condizionando in concreto il diritto di azione».

Il giudice a quo ritiene, altresì, che l’art. 16 del d.m. n. 180 del 2010, nel prevedere che il tentativo di conciliazione abbia un costo non meramente simbolico, sia in contrasto con l’art. 24 Cost., in quanto subordina l’esercizio della funzione giurisdizionale al pagamento di una somma di denaro, così contravvenendo a quanto affermato dalla sentenza n. 67 del 2 novembre 1960 di questa Corte, secondo cui lo Stato non può pretendere somme di denaro per la funzione giurisdizionale civile, se non nel caso di tributi giudiziari o cauzioni.

Detta disposizione, prevedendo, inoltre, che l’esborso di denaro non è destinato allo Stato, ma ad un organismo anche di natura privata, contrasterebbe con il principio fissato nelle sentenze n. 522 del 2002 e n. 333 del 2001 della Corte costituzionale, secondo cui l’esborso deve essere «razionalmente collegato alla pretesa dedotta in giudizio, allo scopo di assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione».

Sussisterebbe anche il contrasto con l’art. 3 Cost. in quanto, prevedendo espressamente che la parte convenuta possa non aderire al procedimento e non anche la parte attrice, si introdurrebbe una disparità di trattamento.

19.— Con atto depositato in data 13 marzo 2012, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha formulato argomentazioni identiche a quelle esposte nell’atto di intervento nel giudizio di legittimità costituzionale originato dall’ordinanza del Giudice di pace di Catanzaro n. 2 del 2012, ed ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata.

20.— Il Tribunale di Torino, con ordinanza del 24 gennaio 2012 (r.o. n. 99 del 2012), ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24, 76, 77, 101 e 102 Cost., dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte in cui prevede che chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa alle materie ivi indicate «è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto», anziché «può esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto»; inoltre, nella parte in cui prevede che «l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale», nonché nella parte in cui prevede che «l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata di ufficio dal giudice non oltre la prima udienza».

In punto di fatto, il rimettente riferisce che, con atto di citazione dell’11 luglio 2011, gli attori hanno citato in giudizio M.A. per ottenerne la condanna al pagamento di una somma di denaro pari ad euro 7.304,47 quale corrispettivo di spese di riscaldamento per gli anni 2005–2010 e «di risarcimento dei danni conseguenti ad un contratto di locazione» intrattenuto tra la loro dante causa con la convenuta, relativo ad un immobile situato in Torino.

La convenuta, costituitasi in giudizio, ha eccepito l’improcedibilità della domanda giudiziale ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, perché vertente in materia di locazione.

Ciò posto, il rimettente ritiene di dover sollevare, di ufficio, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010.

In primo luogo, egli assume che detta disposizione si porrebbe in contrasto con gli articoli 76 e 77 Cost. Al riguardo osserva che l’art. 60 della legge n. 69 del 2009, in conformità a quanto prescritto dalla direttiva europea, aveva stabilito che dovesse essere introdotto un meccanismo di conciliazione, ma non ne aveva previsto la obbligatorietà, né aveva consentito che essa potesse essere considerata come condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

L’art. 60 della legge delega, al comma 3, lettera a), prescrive che nell’esercizio della delega il Governo debba attenersi, tra gli altri, al principio consistente «nel prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia».

Secondo il rimettente, quindi, «il procedimento di media conciliazione è paragonabile ad un arbitrato irrituale imposto per legge in una ampia serie di materie giuridiche, tra cui questa della locazione, che va ad influenzare sia nei tempi, sia nella sostanza il processo che per dettato costituzionale dovrebbe essere tenuto dai giudici ordinari».

Si sarebbe perciò in presenza di uno straripamento dei poteri del legislatore delegato, che avrebbe imposto ai giudici, con grave spesa per i cittadini, almeno tre intralci alla funzione giurisdizionale, cioè quello di sospendere o comunque rinviare i processi in attesa dell’esito della media-conciliazione, che potrebbe pure non essere più attivata, denegando così giustizia ai cittadini stessi; quello derivante dall’art. 8, comma 5, del d.lgs. n. 28 del 2010, che prescrive al giudice di tener conto, ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ., come argomento di prova negativa, del contegno di chi non si presenta davanti al mediatore per partecipare alla conciliazione; e, ancora, quello derivante dall’art. 13 del decreto delegato che impone al giudice di tener conto della proposta formulata dal mediatore, quando deve procedere alla liquidazione delle spese giudiziali ai sensi degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ.

Secondo il rimettente la disposizione censurata si porrebbe in contrasto anche con gli artt. 3, 101 e 102 Cost., in quanto il ricorso al procedimento obbligatorio di media-conciliazione graverebbe, con i detti «irragionevoli intralci», sul potere-dovere del giudice, soggetto solo alla legge, di conduzione e di decisione della causa, e porrebbe «gli utenti della giustizia su un piano di diversità perché la scelta delle materie, in cui è obbligatoria la media-conciliazione, appare del tutto irragionevole rispetto agli interessi meritevoli della tutela giurisdizionale».

Sussisterebbe, altresì, la violazione degli artt. 3 e 24 Cost., in quanto la mediazione avrebbe un costo destinato a ricadere sul cittadino il quale deve adire il giudice statuale, peso che nella maggior parte dei casi si rivelerebbe inutile.

Il giudicante osserva, altresì, che la disciplina della mediazione non prevede criteri di competenza territoriale, con la conseguenza che il chiamato potrebbe essere posto nella irragionevole svantaggiosa posizione di andare a difendersi anche in luoghi molto distanti dalla sua residenza; e l’eventuale «contumacia» del chiamato davanti al mediatore potrebbe essere valutata negativamente dal giudice.

21.— Con atto depositato in data 19 giugno 2012, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha svolto argomentazioni identiche a quelle esposte in relazione all’intervento nel giudizio originato dall’ordinanza r.o. n. 33 del 2012.

22.— In prossimità dell’udienza e della camera di consiglio, l’OUA, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torre Annunziata, l’Unione regionale dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati della Campania, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lagonegro, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Larino, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Campobasso, l’AIAF, l’Organismo di mediazione ADR Center s.p.a., l’Unione Nazionale delle Camere Civili, hanno depositato memorie con le quali ribadiscono e sviluppano le argomentazioni già svolte nell’atto di costituzione.

 

Considerato in diritto

1.— Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (d’ora in avanti, TAR), con l’ordinanza del 12 aprile 2011 (r.o. n. 268 del 2011), dubita – in riferimento agli articoli 24 e 77 della Costituzione – della legittimità costituzionale dell’articolo 5 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali). In particolare, il TAR censura il comma 1, primo periodo (che introduce, a carico di chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa alle controversie nelle materie espressamente elencate, l’obbligo del previo esperimento del procedimento di mediazione), secondo periodo (il quale prevede che l’esperimento della mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale) e terzo periodo (alla stregua del quale l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto o rilevata d’ufficio dal giudice); inoltre il TAR dubita, in riferimento ai medesimi artt. 24 e 77 Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 16 del citato d.lgs. n. 28 del 2010, «laddove dispone che abilitati a costituire organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione sono gli enti pubblici e privati, che diano garanzie di serietà ed efficienza».

1.1.— Il TAR premette di essere chiamato a pronunziare in due procedimenti, relativi a ricorsi recanti i numeri 10937 e 11235 del 2010, poi riuniti, promossi entrambi nei confronti del Ministro della giustizia e del Ministro dello sviluppo economico, il primo da numerosi soggetti, indicati in epigrafe e in narrativa, il secondo dall’Unione Nazionale delle Camere Civili (UNCC), con l’intervento, ad adiuvandum e ad opponendum, di altri soggetti, del pari indicati in epigrafe e in narrativa.

Oggetto dei ricorsi è la domanda di annullamento del decreto adottato dal Ministro della giustizia, di concerto col Ministro dello sviluppo economico, in data 18 ottobre 2010, n. 180, con richiesta di ritenere non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, in riferimento agli artt. 24, 76 e 77 Cost. I ricorrenti affermano che il menzionato d.m. non soltanto sarebbe lesivo degli interessi della categoria forense, ma sarebbe anche illegittimo perché in contrasto col suddetto d.lgs. e con la relativa legge delega e affetto da eccesso di potere sotto vari profili.

Ciò posto, il rimettente si sofferma sul quadro normativo rilevante e sui motivi dei ricorsi, con particolare riguardo alle ragioni attinenti alle sollevate questioni di legittimità costituzionale.

Dopo avere argomentato sulla rilevanza di tali questioni, il rimettente ritiene che le prime tre disposizioni dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 si porrebbero in contrasto con l’art. 77 Cost., perché non potrebbero essere ascritte all’art. 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), non essendo rilevabile alcun elemento da cui desumere che la regolazione della materia contenuta nella normativa censurata sia conforme ai precetti della detta legge delega.

Infatti: 1) nessuno dei criteri e principi direttivi previsti rivelerebbe in modo espresso la finalità di perseguire un intento deflattivo del contenzioso giurisdizionale; 2) nessuno dei criteri o principi configurerebbe l’istituto della mediazione come fase pre-processuale obbligatoria; 3) avuto riguardo al silenzio serbato dal legislatore delegante sullo specifico tema, sarebbe stato almeno necessario che il citato art. 60 lasciasse trasparire sul punto elementi univoci e concludenti, ma ciò non sarebbe avvenuto; 4) si dovrebbe escludere che la norma ora menzionata, con il richiamo alla normativa comunitaria, possa essere intesa come delega al Governo a compiere qualsiasi scelta occasionata dalla direttiva 21 maggio 2008, n. 2008/52/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale); 5) inoltre, tale direttiva lascerebbe «impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure soggetto a incentivi o sanzioni, sia prima che dopo il procedimento giudiziario»; 6) nessun elemento decisivo potrebbe trarsi dal principio previsto dall’art. 60, comma 3, lettera a), della legge-delega, nella parte in cui dispone che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, «senza precludere l’accesso alla giustizia», perché il legislatore, utilizzando tale espressione, avrebbe inteso soltanto rispettare un principio assoluto dell’ordinamento nazionale (art. 24 Cost.) e di quello comunitario.

I criteri e principi direttivi fissati dalla legge delega, dunque, sarebbero neutrali al fine di verificare la rispondenza a tale legge dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010. Invece, due dei criteri direttivi previsti dal legislatore delegante deporrebbero a favore della previsione del carattere facoltativo che si sarebbe inteso attribuire alla procedura di mediazione.

Il primo sarebbe desumibile dall’art. 60, comma 3, lettera c), della legge delega, in forza del quale la mediazione sarebbe disciplinata anche mediante estensione delle disposizioni di cui al decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366). Orbene, la clausola di conciliazione prevista dal d.lgs. n. 5 del 2003 (normativa ora abrogata proprio dal d.lgs. n. 28 del 2010) nasceva da norme di fonte volontaria e non obbligatoria.

Il secondo andrebbe tratto dall’art. 60, comma 3, lettera n), della legge delega, che prevede il dovere dell’avvocato di informare il cliente, prima dell’instaurazione del giudizio, della possibilità di avvalersi dell’istituto della conciliazione, nonché di ricorrere agli organismi di conciliazione. Il rimettente rileva che la possibilità è, ovviamente, cosa diversa dalla obbligatorietà; e, infatti, l’art. 4 del d.lgs. n. 28 del 2010 differenzierebbe al comma 3 l’ipotesi in cui l’avvocato omette di informare il cliente della «possibilità» di avvalersi della mediazione da quella in cui l’omissione informativa concerne i casi nei quali l’espletamento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Quanto all’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, esso avrebbe «conformato gli organismi di conciliazione a parametri, o meglio a qualità, che attengono esclusivamente ed essenzialmente all’aspetto della funzionalità generica, e che, per contro, sono scevri da qualsiasi riferimento a canoni tipologici tecnici o professionali di carattere qualificatorio ovvero strutturale».

2.— Il Giudice di pace di Parma, con ordinanza depositata il 1° agosto 2011 (r.o. n. 254 del 2011), ha sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 77 Cost., questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 1, primo, secondo e terzo periodo, e 16, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010.

Il rimettente, premesso di essere chiamato a giudicare in una causa civile avente ad oggetto una domanda di pagamento in materia di locazione, rientrante nell’ambito applicativo dell’art. 5 del d.lgs. ora citato, ritiene che le norme censurate siano in contrasto: a) con l’art. 24 Cost., «in quanto realizzano un meccanismo di determinante influenza di situazioni preliminari sulla tutela giudiziale dei diritti, posto che l’art. 5 in discorso ha configurato, nelle materie previste, l’attività degli organismi di conciliazione come imprescindibile e, per ciò stesso, idonea a conformare definitivamente i diritti soggettivi coinvolti». In particolare, l’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010 «ha delineato gli organismi di conciliazione con riferimento a qualità nell’ottica della mera funzionalità degli stessi, omettendo qualsiasi riferimento a criteri di qualificazione tecnica o professionale»; sicché «in difetto di una adeguata definizione della figura del mediatore, le norme in discorso potrebbero essere fonte di pregiudizi a danno dei privati, i quali in sede giudiziale potrebbero usufruire di elementi di valutazione diversi da quelli a loro offerti nella fase preliminare del procedimento di mediazione»; b) con l’art. 77 Cost., posto che «il legislatore delegante non ha formulato alcuna indicazione circa l’obbligatorietà del previo esperimento del procedimento di mediazione»; ed anzi, alla luce dei principi e criteri direttivi della legge delega, di cui alle lettere c) ed n) del comma 3 dell’art. 60, si deve escludere che l’obbligatorietà di detto procedimento possa rientrare nella discrezionalità tipica della legislazione delegata «quale attività di attuazione e sviluppo della delega, nella debita considerazione del contesto normativo comunitario di riferimento».

3.— Il Giudice di pace di Recco, con l’ordinanza depositata il 5 dicembre 2011 (r.o. n. 33 del 2012), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 16 del d.m. n. 180 del 2010, «da soli o in combinato disposto».

Le suddette disposizioni, ad avviso del rimettente, sarebbero in contrasto con: a) l’art. 24 Cost., in relazione ai tempi del processo, in quanto il termine di quattro mesi «appare decisamente al di fuori della soglia di tollerabilità», ancor più se si prendono in considerazione altri procedimenti concernenti tentativi obbligatori di conciliazione, ma con termini di espletamento più brevi; b) ancora con l’art. 24 Cost., in relazione alla disciplina dei costi della mediazione, assumendo che «Tra l’esigenza di non rendere economicamente troppo gravoso ai cittadini l’accesso alla tutela giurisdizionale e l’esigenza, pur particolarmente avvertita, di individuare strumenti idonei a decongestionare gli uffici giudiziari attraverso lo sfoltimento del carico di lavoro, prevalenza debba avere la prima»; c) con l’art. 3 Cost., in quanto la disciplina dei costi di mediazione introduce una disparità di trattamento tra i meno abbienti e gli abbienti. Infatti, benché sia stato previsto il beneficio del patrocinio a spese dello Stato, la citata disparità comunque resterebbe in relazione ai soggetti che, pur non rientrando nel novero di coloro che possono avvalersi del detto patrocinio, versano in condizioni economiche non agiate; d) con l’art. 111 Cost., sotto il profilo della ragionevole durata del processo, in quanto l’espletamento della mediazione allunga i tempi di esso in assenza di una idonea giustificazione; e) ancora con l’art. 111 Cost., sempre sotto il profilo della ragionevole durata del processo, in quanto l’espletamento obbligatorio del tentativo di mediazione si deve effettuare non soltanto con riguardo alla domanda principale, ma anche in relazione ad ogni singola azione proposta nel corso del giudizio; f) di nuovo con l’art. 3 Cost., per irragionevolezza correlata al carattere obbligatorio della mediazione avente ad oggetto le controversie di competenza del Giudice di pace, in quanto nel processo avanti al detto giudice il tentativo obbligatorio di conciliazione è già previsto.

4.— Il Giudice di pace di Catanzaro, con l’ordinanza depositata il 1° settembre 2011 (r.o. n. 2 del 2012), dubita – in riferimento agli artt. 24, 76 e 77 Cost. – della legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte in cui prevede che lo svolgimento della procedura di mediazione sia condizione di procedibilità della domanda giudiziale in relazione alle controversie nelle materie in esso indicate.

Il rimettente riferisce di dover pronunziare in un giudizio promosso dall’attore per accertare il suo diritto ad ottenere la restituzione di due libri dati in comodato. La convenuta ha eccepito, in via preliminare, l’improcedibilità della domanda per omesso espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione, ai sensi del censurato art. 5.

Ad avviso del giudicante, detta norma violerebbe: a) gli artt. 76 e 77 Cost., ponendosi in contrasto con i principi e criteri direttivi di cui all’art. 60, comma 3, lettera a), della legge n. 69 del 2009, secondo cui il Governo, nell’esercizio della delega, doveva prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, avesse per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia; b) l’art. 24 Cost. perché il tentativo obbligatorio di conciliazione avrebbe un costo non meramente simbolico, sicché l’esercizio della funzione giurisdizionale sarebbe subordinato al pagamento di una somma di denaro.

Inoltre, il giudice a quo censura, in riferimento all’art. 3 Cost., l’art. 16, comma 4, del d.m. n. 180 del 2010, nella parte in cui consente «solo alla parte convenuta di non aderire al procedimento, ma non anche alla parte attrice, che si vedrebbe, comunque, obbligata al procedimento di mediazione per poter far valere in giudizio un suo diritto». Al riguardo, il rimettente ritiene che detta disposizione sia in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo del principio di uguaglianza, perché «pone su piani diversi, e tratta diversamente, la parte attrice rispetto a quella convenuta».

5.— Il Tribunale di Genova, con ordinanza depositata il 18 novembre 2011 (r.o. n. 108 del 2012), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. – questioni di legittimità costituzionale: 1) dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte in cui prevede l’esperimento del procedimento di mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale solo per le materie espressamente elencate nel comma primo; 2) dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 2653, primo comma, numero 1), del codice civile, nella parte in cui non prevedono, per le domande dirette all’accertamento di diritti reali, la possibilità di trascrivere la domanda di mediazione e direttamente il verbale di mediazione, con efficacia prenotativa della prima anche rispetto al provvedimento giurisdizionale conclusivo del giudizio; 3) dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 16 del d.m n. 180 del 2010, nella parte in cui prevedono l’espletamento della procedura di mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, stabilendone, altresì, il carattere oneroso; 4) in riferimento al solo art. 3 Cost., del combinato disposto degli artt. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e 16 del d.m. n. 180 del 2010, nella parte in cui prevedono che solo il convenuto possa non aderire al procedimento di mediazione.

Il rimettente, quanto al punto sub 1), ritiene violati gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto la limitazione della procedura di mediazione solo ad alcune materie darebbe luogo ad una differenza non giustificata da alcuna ragionevole scelta di politica legislativa; in ordine al punto sub 2), i citati parametri costituzionali sarebbero violati perché l’attore si vedrebbe costretto a presentare istanza di mediazione (a pena d’improcedibilità), ad iniziare un giudizio trascrivendo la relativa domanda, a prescindere dall’esito della mediazione stessa, a chiedere in ogni caso una pronunzia giurisdizionale di merito, con la irragionevole conseguenza che l’attore dovrebbe sopportare sia i costi della mediazione, sia il pagamento del contributo unificato per l’instaurazione del giudizio, senza potersi giovare dell’effetto deflattivo della procedura di mediazione. Quanto al punto sub 3), le disposizioni in esso menzionate si porrebbero in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. perché l’accesso alla giurisdizione resterebbe condizionato al pagamento di una somma di denaro; infine, in relazione al punto 4) le norme censurate si porrebbero in contrasto con l’art. 3 Cost., perché esse darebbero luogo ad una disparità di trattamento tra attore e convenuto, dal momento che per il primo non sarebbe prevista la possibilità di rinunziare ad avvalersi del servizio, incorrendo sempre nel pagamento sia delle spese di avvio sia di quelle di mediazione.

6.— Il Giudice di pace di Catanzaro, con l’ordinanza depositata il 3 novembre 2011 (r.o. n. 19 del 2012), ha sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 77 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 16 del d.m. n. 180 del 2010.

Ad avviso del rimettente, chiamato a decidere su una domanda diretta ad ottenere il pagamento di un indennizzo derivante da contratto assicurativo, l’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nel prevedere che l’espletamento della procedura di mediazione sia condizione di procedibilità della domanda giudiziale, violerebbe l’art. 77 Cost. Infatti, sussisterebbe contrasto «tra la legge delega ed il decreto legislativo 28/10, nella misura in cui, mentre l’art. 60 L. 69/09 (legge delega) al terzo comma lett. a prescrive che nell’esercizio della delega il Governo si attenga, tra gli altri, al seguente principio e criterio direttivo “a) prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia”, l’art. 5 d.lgs. n. 28/10 concepisce invece il procedimento di mediazione quale momento propedeutico alla domanda giudiziale, rischiando di compromettere l’effettività della stessa tutela giudiziale e condizionando in concreto il diritto di azione».

Inoltre, l’art. 16 del d.m. n. 180 del 2010 si porrebbe in evidente contrasto con l’art. 24 Cost., perché, nel prevedere che il tentativo di conciliazione abbia un costo, non meramente simbolico, subordinerebbe l’esercizio della funzione giurisdizionale al pagamento di una somma di denaro, così discostandosi anche dalla sentenza di questa Corte n. 67 del 1960.

Infine, sarebbe ravvisabile anche violazione dell’art. 3 Cost., perché l’art. 16 ora citato, concernente i criteri di determinazione delle indennità, prevedendo che soltanto il convenuto, e non l’attore, possa non aderire alla procedura di mediazione, introdurrebbe una disparità di trattamento.

7.— Il Giudice di pace di Salerno, con l’ordinanza depositata il 19 dicembre 2011 (r.o. n. 51 del 2012), ha sollevato – in riferimento agli artt. 24, 70, 76 e 77 Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010.

Il rimettente, chiamato a pronunciarsi in un giudizio promosso contro una società di assicurazioni al fine di ottenere un indennizzo per lesioni subite e per spese mediche sostenute a seguito di un incidente stradale, ritiene che la norma censurata, nella parte in cui prevede che l’esperimento della procedura di mediazione costituisca condizione di procedibilità della domanda giudiziale, si riveli in contrasto con gli artt. 70, 76 e 77 Cost., in quanto «analizzando il rapporto tra legge delega e decreto legislativo n. 28/2010 emerge chiaramente che l’art. 26 (recte: 76) attribuisce la delega al Governo “esclusivamente” per recepire la disposizione prevista dall’art. 69/09 ed in particolare l’eccesso si configura laddove non è stata recepita la parte in cui escludeva che il procedimento potesse costituire condizione di procedibilità della domanda ovvero fosse in grado di precludere, per tutta la sua durata, l’accesso alla giustizia ordinaria». Ciò perché unico intento della legge delega sarebbe stato quello di creare esclusivamente «un organismo deflattivo per la giustizia e non certamente di favorire la creazione di un elemento ostativo al suo accesso».

Inoltre, sarebbe violato l’art. 24 Cost. perché la norma denunziata avrebbe reso «la mediazione una condizione di procedibilità della domanda giudiziaria, negando per tutto il tempo della sua durata l’accesso alla giustizia e soprattutto non prevedendo alcun mezzo per i meno abbienti per attivare il procedimento della media conciliazione». Inoltre, «in caso di fallimento del procedimento di media conciliazione le spese sostenute per adire l’organismo definito deflattivo non potranno essere ripetute e rimarranno esclusivamente a carico delle parti, con evidenti conseguenze economiche afflittive per le classi sociali meno agiate».

A sostegno della tesi propugnata, il giudice a quo richiama il principio affermato da questa Corte, secondo il quale «un sistema di giustizia “condizionata” è ammissibile solo nel caso in cui l’eccezione al principio dell’accesso immediato alla giurisdizione si presenti come ragionevole e risponda ad un interesse generale, purché non vengano imposti oneri tali da rendere impossibile o eccessivamente difficile far valere le proprie ragioni».

8.— Il Tribunale di Torino, in composizione monocratica, con l’ordinanza depositata il 24 gennaio 2012 (r.o. n. 99 del 2012), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 24, 76, 77, 101 e 102 Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte in cui prevede che chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa alle materie ivi indicate «è tenuto preliminarmente ad esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto», anziché «può esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto»; inoltre, nella parte in cui prevede che «l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale», nonché nella parte in cui prevede che «l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza».

Il rimettente riferisce di essere investito di un giudizio di pagamento di somme relative ad un contratto di locazione. In prima udienza la convenuta ha eccepito l’improcedibilità della domanda, non essendo stata attivata la procedura di mediazione.

Ciò posto, il giudice a quo ritiene che la norma censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 76 e 77 Cost., in quanto, configurando il procedimento di mediazione come obbligatorio e condizione di procedibilità della domanda, violerebbe il principio e criterio direttivo di cui all’art. 60, comma 3, lettera a), della legge n. 69 del 2009, secondo cui il Governo, nell’esercizio della delega, deve prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia. Il procedimento di media-conciliazione sarebbe «paragonabile ad un arbitrato irrituale imposto per legge in un’ampia serie di materie giuridiche», tra cui la locazione, procedimento che «va ad influenzare sia nei tempi sia nella sostanza il processo che per dettato costituzionale dovrebbe essere tenuto dai giudici ordinari».

Ad avviso del rimettente, sarebbero poi violati gli artt. 101 e 102 Cost., perché «lo straripamento dei poteri del legislatore delegato» avrebbe imposto ai giudici, nel corso dei processi, almeno tre intralci alla funzione giurisdizionale: 1) quello derivante dall’imporre al giudice di sospendere o comunque rinviare i processi in attesa dell’esito della media-conciliazione, che potrebbe pure non essere più attivata, così denegando giustizia ai cittadini; 2) quello derivante dall’art. 8, comma 5, del d.lgs. n. 28 del 2010, che prescrive al giudice di tener conto, ai sensi dell’art. 116 del codice di procedura civile, come argomento di prova negativa, del comportamento di chi non si presenta davanti al mediatore per partecipare alla conciliazione; 3) quello derivante dall’art. 13 del decreto delegato, che impone al giudice di tenere conto della proposta formulata dal mediatore, quando deve procedere alla liquidazione delle spese processuali, ai sensi degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ.

Ancora, sarebbero violati gli artt. 3 e 24 Cost., perché la scelta delle materie, nelle quali la mediazione è obbligatoria, apparirebbe del tutto irragionevole rispetto agli interessi meritevoli della tutela giurisdizionale, in quanto – introducendo un costo a carico dei cittadini ed a favore degli uffici privati della media-conciliazione – si porrebbe in contrasto con i principi dettati da questa Corte nella sentenza n. 67 del 1960; non prevedendo criteri di competenza territoriale, porrebbe il privato nella irragionevole posizione di doversi difendere anche in luoghi molto distanti dalla sua residenza, scelti dall’attore; l’eventuale «contumacia» del chiamato davanti al mediatore potrebbe essere valutata negativamente dal giudice.

9.— Le otto ordinanze di rimessione, qui riassunte, pongono questioni identiche, o tra loro strettamente connesse, in relazione alla normativa censurata. Pertanto, i relativi giudizi devono essere riuniti, per essere definiti con unica sentenza.

10.— In via preliminare deve essere confermata l’ordinanza, adottata nel corso dell’udienza pubblica ed allegata alla presente sentenza, con la quale sono stati dichiarati inammissibili gli interventi spiegati nel giudizio di cui all’ordinanza n. 268 del 2011 dai seguenti soggetti: il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano; la Società Italiana Conciliazione Mediazione ed Arbitrato (SIC & A) s.r.l.; l’Associazione Nazionale Mediatori e Conciliatori; l’Unioncamere – Unione Italiana delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura; la Camera di commercio di Cagliari; la Camera di commercio di Firenze; la Camera di commercio di Milano; la Camera di commercio di Palermo; la Camera di commercio di Potenza; la Camera di commercio di Roma; la Camera di commercio di Torino; la Camera di commercio di Venezia; Assomediazione – Associazione italiana organismi privati di mediazione e di formazione per la mediazione; nonché l’intervento spiegato dal Consiglio Nazionale Forense nel giudizio di legittimità costituzionale introdotto con ordinanza del Tribunale di Genova r.o. n. 108 del 2012.

Invero, i soggetti e gli enti sopra indicati non sono stati parti nei giudizi a quibus.

Per giurisprudenza di questa Corte, ormai costante, sono ammessi a intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale (oltre al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale) le sole parti del giudizio principale, mentre l’intervento di soggetti estranei a questo è ammissibile soltanto per i terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto ed immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (ex plurimis: ordinanza letta all’udienza del 23 marzo 2010, confermata con sentenza n. 138 del 2010; ordinanza letta all’udienza del 31 marzo 2009, confermata con sentenza n. 151 del 2009; sentenze n. 94 del 2009, n. 96 del 2008 e n. 245 del 2007).

Orbene, nei giudizi da cui traggono origine le questioni di legittimità costituzionale in discussione, i rapporti sostanziali dedotti in causa concernono profili attinenti alla mediazione nel processo civile, che possono anche riguardare interessi professionali della classe forense o delle Camere di commercio, ma concernono più in generale le posizioni che le parti intendono azionare nel processo e non mettono in gioco le prerogative del Consiglio Nazionale Forense, dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati o delle dette Camere di commercio, nonché, a maggior ragione, degli altri soggetti sopra indicati.

Sotto altro profilo, l’ammissibilità d’interventi ad opera di terzi, titolari di interessi soltanto analoghi a quelli dedotti nel giudizio principale, contrasterebbe con il carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale, in quanto l’accesso delle parti al detto giudizio avverrebbe senza la previa verifica della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione da parte del giudice a quo.

Considerazioni identiche valgono in ordine alla posizione di ADR Accorditalia s.r.l. Tale società ha spiegato intervento ad opponendum nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale, relativo alla questione sollevata dal Giudice di pace di Salerno (r.o. n. 51 del 2012), pur non rivestendo la qualità di parte nel giudizio a quo.

Ne deriva la declaratoria d’inammissibilità dei suddetti interventi.

11.— La questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Giudice di pace di Recco, deve essere dichiarata inammissibile.

Infatti, il rimettente omette qualsiasi descrizione della fattispecie sottoposta al suo esame, limitandosi a rilevare che si tratta di controversia «non priva di interesse e nemmeno di agevole soluzione, che tuttavia, essendo matura per la decisione in quanto basata esclusivamente su risultanze documentali, sarebbe stata decisa in quindici giorni». In particolare, il giudice a quo trascura di fornire elementi idonei a stabilire se la vertenza, nella quale è chiamato a pronunciare, rientri o meno nel catalogo delle cause per le quali l’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010 impone il preliminare esperimento del procedimento di mediazione, così precludendo alla Corte il necessario controllo in punto di rilevanza.

Né la rilevata omissione potrebbe essere sanata con l’esame del fascicolo relativo al giudizio di merito, perché ciò si tradurrebbe in violazione del principio di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione.

12.— Devono essere esaminate con priorità, per ragioni di ordine logico, le questioni di legittimità costituzionale sollevate, in riferimento agli articoli 76 e 77 Cost., nei confronti dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010, con particolare riguardo al carattere obbligatorio che detta norma, in asserita violazione della legge delega, attribuisce al preliminare esperimento della procedura di mediazione.

Al riguardo, è il caso di osservare che l’ordinanza di rimessione del TAR menziona esplicitamente tra i parametri costituzionali, oltre all’art. 24, soltanto l’art. 77 Cost. Tuttavia, poiché dalla motivazione della detta ordinanza si desume con chiarezza il richiamo anche alla violazione dell’art. 76 Cost., lo scrutinio di legittimità costituzionale va condotto pure in riferimento all’eccesso di delega, peraltro evocato da altre ordinanze di rimessione.

Il citato art. 5, comma 1, sotto la rubrica «Condizione di procedibilità e rapporti con il processo», così dispone: «1. Chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa ad una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto preliminarmente ad esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto ovvero il procedimento di conciliazione previsto dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, ovvero il procedimento istituito in attuazione dell’articolo 128-bis del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, per le materie ivi regolate. L’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice, ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6. Allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione. Il presente comma non si applica alle azioni previste dagli articoli 37, 140 e 140-bis del codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni».

In forza di tale norma, la parte che intende agire in giudizio per una delle azioni specificamente indicate, è tenuta, in via preliminare, ad esperire la procedura di conciliazione, disciplinata come condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Il carattere obbligatorio così attribuito a detta procedura è censurato, per eccesso o difetto di delega, da quasi tutte le ordinanze di rimessione sopra riassunte; e tali censure sono fondate.

12.1.— Si deve premettere che, come questa Corte ha più volte affermato, «Il controllo della conformità della norma delegata alla norma delegante richiede un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli, l’uno relativo alla norma che determina l’oggetto, i principi e i criteri direttivi della delega; l’altro relativo alla norma delegata da interpretare nel significato compatibile con questi ultimi.

Il contenuto della delega deve essere identificato tenendo conto del complessivo contesto normativo nel quale si inseriscono la legge delega e i relativi principi e criteri direttivi, nonché delle finalità che la ispirano, che costituiscono non solo base e limite delle norme delegate, ma anche strumenti per l’interpretazione della loro portata. La delega legislativa non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato, che può essere più o meno ampia, in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella legge delega: pertanto, per valutare se il legislatore abbia ecceduto tali margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia con questa coerente» (ex plurimis: sentenze n. 230 del 2010, n. 98 del 2008, nn. 340 e 170 del 2007).

In particolare, circa i requisiti che devono fungere da cerniera tra i due atti normativi, «i principi e i criteri direttivi della legge di delegazione devono essere interpretati sia tenendo conto delle finalità ispiratrici della delega, sia verificando, nel silenzio del legislatore delegante sullo specifico tema, che le scelte del legislatore delegato non siano in contrasto con gli indirizzi generali della stessa legge delega» (sentenza n. 341 del 2007, ordinanza n. 228 del 2005).

Ciò posto, si deve osservare che sia la legge delega (art. 60, comma 2 e comma 3, lettera c, della legge n. 69 del 2009), sia il d.lgs. n. 28 del 2010 (preambolo) si richiamano al rispetto e alla coerenza con la normativa dell’Unione europea. È necessaria, dunque, una ricognizione, sia pure concisa, degli elementi desumibili da tale normativa.

L’indagine deve prendere le mosse dalla direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio in data 21 maggio 2008, «relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale». Essa risponde alla necessità – già posta in rilievo dal Consiglio europeo nella riunione di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999, nelle conclusioni adottate dal detto Consiglio nel maggio 2000, nonché dal libro verde presentato dalla Commissione nell’aprile 2002 – di garantire un migliore accesso alla giustizia, invitando gli Stati membri ad istituire procedure extragiudiziali ed alternative di risoluzione delle controversie civili e commerciali.

La direttiva muove dal presupposto che la mediazione «può fornire una risoluzione extragiudiziale conveniente e rapida delle controversie in materia civile e commerciale attraverso procedure concepite in base alle esigenze delle parti. Gli accordi risultanti dalla mediazione hanno maggiori probabilità di essere rispettati volontariamente e preservano più facilmente una relazione amichevole e sostenibile tra le parti. Tali benefici diventano anche più evidenti nelle situazioni che mostrano elementi di portata transfrontaliera» (direttiva citata, sesto Considerando).

Il quattordicesimo Considerando afferma che «La presente direttiva dovrebbe inoltre fare salva la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure soggetto ad incentivi o sanzioni, purché tale legislazione non impedisca alle parti di esercitare il loro diritto di accesso al sistema giudiziario. Del pari, la presente direttiva non dovrebbe pregiudicare gli attuali sistemi di mediazione autoregolatori nella misura in cui essi trattano aspetti non coperti dalla presente direttiva». Il principio, poi, è ripreso e precisato nell’art. 3, lettera a), della direttiva medesima che, dopo avere definito la mediazione come «un procedimento strutturato, indipendentemente dalla denominazione, dove due o più parti di una controversia tentano esse stesse, su base volontaria, di raggiungere un accordo sulla risoluzione della medesima con l’assistenza di un mediatore», in ordine alle modalità stabilisce che «Tale procedimento può essere avviato dalle parti, suggerito od ordinato da un organo giurisdizionale o prescritto dal diritto di uno Stato membro».

Infine, l’art. 5, comma 2, dispone che «La presente direttiva lascia impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure soggetto a incentivi o sanzioni, sia prima che dopo l’inizio del procedimento giudiziario, purché tale legislazione non impedisca alle parti di esercitare il diritto di accesso al sistema giudiziario».

Merita, poi, di essere menzionata la Risoluzione del Parlamento europeo in data 25 ottobre 2011 (2011/2117-INI) sui metodi alternativi di soluzione delle controversie in materia civile, commerciale e familiare, ancorché priva di efficacia vincolante.

Essa considera, tra l’altro, che una soluzione alternativa delle controversie (Alternative Dispute Resolution – ADR), che consenta alle parti di evitare le tradizionali procedure arbitrali, può costituire un’alternativa rapida ed economica ai contenziosi; e, al paragrafo 10, afferma che «al fine di non pregiudicare l’accesso alla giustizia, si oppone a qualsiasi imposizione generalizzata di un sistema obbligatorio di ADR a livello di UE, ma ritiene che si potrebbe valutare un meccanismo obbligatorio per la presentazione dei reclami delle parti al fine di esaminare le possibilità di ADR». Al paragrafo 31, sesto capoverso, aggiunge (tra l’altro) che l’ADR deve avere un carattere facoltativo, fondato sul rispetto della libera scelta delle parti durante l’intero arco del processo, che lasci loro la possibilità di risolvere in qualsiasi istante la controversia dinanzi ad un tribunale, e che esso non deve essere in alcun caso una prima tappa obbligatoria preliminare all’azione in giudizio.

Da ultimo, va ricordata, nei limiti in precedenza esposti, la risoluzione del Parlamento europeo del 13 settembre 2011 (2011/2026-INI), relativa all’attuazione della direttiva sulla mediazione negli Stati membri, impatto della stessa sulla mediazione e sua adozione da parte dei tribunali. Tale risoluzione, nel passare in rassegna le modalità con cui alcuni degli Stati membri hanno attuato la direttiva citata, osserva nel paragrafo 10 che «nel sistema giuridico italiano la mediazione obbligatoria sembra raggiungere l’obiettivo di diminuire la congestione nei tribunali; ciononostante sottolinea che la mediazione dovrebbe essere promossa come una forma di giustizia alternativa praticabile, a basso costo e più rapida, piuttosto che come un elemento obbligatorio della procedura giudiziaria».

Per completare il quadro, è da considerare, nei limiti di seguito precisati, la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in data 18 marzo 2010, Sezione quarta, pronunciata nelle cause riunite C-317/08, C-318/08, C-319/08, C-320/08.

Con tale pronuncia la Corte ha affermato i seguenti principi: a) l’art. 34 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 7 marzo 2002, n. 2002/22/CE, relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica (direttiva servizio universale) deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa di uno Stato membro in forza della quale le controversie in materia di servizi di comunicazione elettronica tra utenti finali e fornitori di tali servizi, che riguardano diritti conferiti da tale direttiva, devono formare oggetto di un tentativo obbligatorio di conciliazione extragiudiziale come condizione per la ricevibilità dei ricorsi giurisdizionali; b) neanche i principi di equivalenza e di effettività, nonché il principio della tutela giurisdizionale effettiva, ostano ad una normativa nazionale che impone per siffatte controversie il previo esperimento di una procedura di conciliazione extragiudiziale, a condizione che tale procedura non conduca ad una decisione vincolante per le parti, non comporti un ritardo sostanziale per la proposizione di un ricorso giurisdizionale, sospenda la prescrizione dei diritti in questione e non generi costi, ovvero questi non siano ingenti per le parti, e purché la via elettronica non costituisca l’unica modalità di accesso a detta procedura di conciliazione e sia possibile disporre provvedimenti provvisori nei casi eccezionali in cui l’urgenza della situazione lo imponga.

Nella motivazione della pronuncia si legge (punto 65) che, da un lato, non esiste un’alternativa meno vincolante alla predisposizione di una procedura obbligatoria, dato che l’introduzione di una procedura di risoluzione extragiudiziale meramente facoltativa non costituisce uno strumento altrettanto efficace per la realizzazione di detti obiettivi; dall’altro, non sussiste una sproporzione manifesta tra tali obiettivi e gli eventuali inconvenienti causati dal carattere obbligatorio della procedura di conciliazione extragiudiziale.

12.2.— Come emerge dalla ricognizione che precede, dai richiamati atti dell’Unione europea non si desume alcuna esplicita o implicita opzione a favore del carattere obbligatorio dell’istituto della mediazione. Fermo il favor dimostrato verso detto istituto, in quanto ritenuto idoneo a fornire una risoluzione extragiudiziale conveniente e rapida delle controversie in materia civile e commerciale, il diritto dell’Unione disciplina le modalità con le quali il procedimento può essere strutturato («può essere avviato dalle parti, suggerito od ordinato da un organo giurisdizionale o prescritto dal diritto di uno Stato membro», ai sensi dell’art. 3, lettera a, della direttiva 2008/52/CE del 21 maggio 2008), ma non impone e nemmeno consiglia l’adozione del modello obbligatorio, limitandosi a stabilire che resta impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio (art. 5, comma 2, della direttiva citata).

Allo stesso principio, come risulta dal dispositivo, s’ispira la sentenza della Corte di giustizia richiamata nel paragrafo che precede. Vero è che, in un passaggio argomentativo (punto 65 della motivazione) la Corte considera inesistente una alternativa meno vincolante alla predisposizione di una procedura obbligatoria, perché l’introduzione di una procedura di risoluzione extragiudiziale meramente facoltativa non costituirebbe uno strumento altrettanto efficace per la realizzazione degli obiettivi perseguiti. Ma tale rilievo non può costituire un precedente, sia perché si tratta di un obiter dictum, sia perché la sentenza citata interviene su una procedura conciliativa concernente un tipo ben circoscritto di controversie (quelle in materia di servizi di comunicazioni elettroniche tra utenti finali e fornitori di tali servizi), là dove la mediazione di cui qui si discute riguarda un rilevante numero di vertenze, che rende non comparabili le due procedure anche per le differenze strutturali che le caratterizzano.

Pertanto, la disciplina dell’UE si rivela neutrale in ordine alla scelta del modello di mediazione da adottare, la quale resta demandata ai singoli Stati membri, purché sia garantito il diritto di adire i giudici competenti per la definizione giudiziaria delle controversie.

Ne deriva che l’opzione a favore del modello di mediazione obbligatoria, operata dalla normativa censurata, non può trovare fondamento nella citata disciplina.

Infatti, una volta raggiunta tale conclusione, si deve per conseguenza escludere che il contenuto della legge delega, richiamando la direttiva comunitaria, possa essere interpretato come scelta a favore del modello di mediazione obbligatoria.

13.— Si deve ora procedere all’interpretazione della legge delega (art. 60 della legge n. 69 del 2009), al fine di verificare il rispetto dei principi da essa posti in sede di emanazione del d.lgs. n. 28 del 2010 e, in particolare, delle disposizioni oggetto di censure.

Orbene, la detta legge delega, tra i principi e criteri direttivi di cui all’art. 60, comma 3, non esplicita in alcun modo la previsione del carattere obbligatorio della mediazione finalizzata alla conciliazione. Sul punto l’art. 60 della legge n. 69 del 2009, che per altri aspetti dell’istituto si rivela abbastanza dettagliato, risulta del tutto silente. Eppure, non si può certo ritenere che l’omissione riguardi un aspetto secondario o marginale. Al contrario, la scelta del modello di mediazione costituisce un profilo centrale nella disciplina dell’istituto, come risulta sia dall’ampio dibattito dottrinale svoltosi in proposito, sia dai lavori parlamentari durante i quali il tema dell’obbligatorietà o meno della mediazione fu più volte discusso.

Non si potrebbe ritenere che il carattere obbligatorio sia implicitamente desumibile dall’art. 60 citato, comma 3, lettera a). Tale disposizione, nel prevedere che la mediazione abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, aggiunge la frase «senza precludere l’accesso alla giustizia». Si tratta, però, di un’affermazione di carattere generale, non a caso collocata in apertura dell’elenco dei principi e criteri direttivi e non necessariamente collegabile alla scelta di un determinato modello procedurale, tanto più che nella norma di delega non mancano spunti ben più espliciti che orientano l’interprete in senso contrario rispetto alla volontà del legislatore delegante di introdurre una procedura a carattere obbligatorio.

In particolare: l’art. 60, comma 3, lettera c), dispone che la mediazione sia disciplinata «anche attraverso l’estensione delle disposizioni di cui al decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5», recante la definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia. Gli articoli da 38 a 40 di tale decreto (poi abrogati dall’art. 23, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010) prevedevano un procedimento di conciliazione stragiudiziale nel quale il ricorso alla mediazione trovava la propria fonte in un accordo tra le parti (contratto o statuto). Il modulo richiamato dal legislatore delegante era, dunque, di fonte volontaria, il che non si concilia (pur volendo considerare quel richiamo come non vincolante) con un’opzione a favore della mediazione obbligatoria.

Ancora, merita di essere menzionato il disposto dell’art. 60, comma 3, lettera n), della norma di delega, alla stregua del quale nell’esercizio della delega stessa il Governo doveva attenersi (tra gli altri) al principio di «prevedere il dovere dell’avvocato di informare il cliente, prima dell’instaurazione del giudizio, della possibilità di avvalersi dell’istituto della conciliazione nonché di ricorrere agli organismi di conciliazione». Orbene, «possibilità» di avvalersi significa, evidentemente, facoltà, e non obbligo, di avvalersi («è tenuto preliminarmente»), cui invece fa riferimento l’art. 5, comma 1, del decreto delegato. Il che si evince con chiarezza dall’art. 4, comma 3, di quest’ultimo.

La disposizione così stabilisce: «All’atto del conferimento dell’incarico, l’avvocato è tenuto ad informare l’assistito della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione disciplinato dal presente decreto e delle agevolazioni fiscali di cui agli articoli 17 e 20»; poi, così prosegue: «L’avvocato informa altresì l’assistito dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale». Com’è palese, si tratta di due disposizioni distinte, la prima riferibile alla mediazione facoltativa, la seconda alla mediazione obbligatoria e perciò costituente condizione di procedibilità della domanda. Tuttavia, soltanto il primo modello trova la necessaria copertura nella norma di delega. Il secondo compare nel decreto delegato, ma è privo di ancoraggio nella norma suddetta.

Il denunciato eccesso di delega, dunque, sussiste, in relazione al carattere obbligatorio dell’istituto di conciliazione e alla conseguente strutturazione della relativa procedura come condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle controversie di cui all’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010.

Tale vizio non potrebbe essere superato considerando la norma introdotta dal legislatore delegato come un coerente sviluppo e completamento delle scelte espresse dal delegante, perché – come sopra messo in rilievo – in realtà con il censurato art. 5, comma 1, si è posto in essere un istituto (la mediazione obbligatoria in relazione alle controversie nella norma stessa elencate) che non soltanto è privo di riferimenti ai principi e criteri della delega ma, almeno in due punti, contrasta con la concezione della mediazione come imposta dalla normativa delegata.

Né giova il richiamo alla sentenza di questa Corte n. 276 del 2000.

Invero, con quella pronuncia fu dichiarata (tra l’altro) non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 410, 410-bis e 412-bis cod. proc. civ., come modificati, aggiunti o sostituiti dagli artt. 36, 37 e 39 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’art. 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), e dall’art. 19 del decreto legislativo 29 ottobre 1998, n. 387 (Ulteriori disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, e del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80).

La Corte pervenne a tale decisione escludendo (tra l’altro) che le norme censurate fossero viziate da eccesso di delega. A tal fine, essa, prendendo le mosse dalla complessa riforma che aveva realizzato il passaggio dalla giurisdizione amministrativa a quella ordinaria delle controversie sul rapporto di impiego «privatizzato» con le pubbliche amministrazioni, sottolineò che la messa a punto di strumenti idonei ad agevolare la composizione stragiudiziale delle controversie, per limitare il ricorso al giudice ordinario alle sole ipotesi di inutile sperimentazione del tentativo di conciliazione, appariva un momento essenziale per la riuscita della riforma. Pose l’accento sul criterio direttivo di cui all’art. 11, comma 4, lettera g), della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle Regioni ed enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa), rimarcando che detta norma, nel devolvere al giudice ordinario tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, prevedeva l’introduzione di «misure organizzative e processuali anche di carattere generale, atte a prevenire disfunzioni relative al sovraccarico del contenzioso», nonché di «procedure stragiudiziali di conciliazione e arbitrato». Dopo avere ricostruito l’oggetto della delega, osservò che «la lettera della delega del 1997 – riferendosi a “procedure stragiudiziali di conciliazione e arbitrato” – non menziona il predicato dell’obbligatorietà. Ma è anche vero che, quando la delega venne conferita, l’articolo 410 del codice di procedura civile, nel testo allora vigente, già contemplava un tentativo facoltativo di conciliazione per le controversie ex art. 409, mentre l’art. 69 del decreto legislativo n. 29 del 1993 prevedeva – come si è detto – un tentativo obbligatorio di conciliazione per le controversie di pubblico impiego privatizzato. In siffatto contesto deve escludersi che la delega si limitasse ad attribuire al legislatore delegato il potere di regolare diversamente le mere modalità organizzative del tentativo di conciliazione esistente, senza consentire (per le controversie ex art. 409 del codice di procedura civile) l’introduzione dell’obbligatorietà».

Come si vede, la sentenza n. 276 del 2000, per giungere alla conclusione secondo cui «L’introduzione del tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie ex art. 409 del codice di procedura civile ha dunque rispettato la delega» (punto 2.5. quarto capoverso, del Considerato in diritto), fece leva sia sul contesto della riforma attuata, senza dubbio di ampio respiro ma circoscritta alle controversie nel settore del diritto del lavoro, sia sulla presenza in tale settore di un tentativo facoltativo di conciliazione per le controversie ai sensi dell’art. 409 cod. proc. civ., e di un tentativo obbligatorio di conciliazione per le controversie di pubblico impiego privatizzato. Pertanto la previsione dell’obbligatorietà, nel quadro delle «misure organizzative e processuali anche di carattere generale atte a prevenire disfunzioni dovute al sovraccarico del contenzioso» (art. 11, comma 4, lettera g, della citata norma di delega) non appariva come un novum avulso da questa, ma costituiva piuttosto il coerente sviluppo di un principio già presente nello specifico settore.

La fattispecie qui in esame è, invece, diversa: a parte la differenza di contesto, essa delinea un istituto a carattere generale, destinato ad operare per un numero consistente di controversie, in relazione alle quali, però, alla stregua delle considerazioni sopra svolte, il carattere dell’obbligatorietà per la mediazione non trova alcun ancoraggio nella legge delega.

Né varrebbe addurre che l’ordinamento conosce varie procedure obbligatorie di conciliazione, trattandosi di procedimenti specifici, per singoli settori, in relazione ai quali nessun rapporto di derivazione è configurabile in riferimento all’istituto in esame.

Infine, quanto alla finalità ispiratrice del detto istituto, consistente nell’esigenza di individuare misure alternative per la definizione delle controversie civili e commerciali, anche al fine di ridurre il contenzioso gravante sui giudici professionali, va rilevato che il carattere obbligatorio della mediazione non è intrinseco alla sua ratio, come agevolmente si desume dalla previsione di altri moduli procedimentali (facoltativi o disposti su invito del giudice), del pari ritenuti idonei a perseguire effetti deflattivi e quindi volti a semplificare e migliorare l’accesso alla giustizia.

In definitiva, alla stregua delle considerazioni fin qui esposte, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010, per violazione degli artt. 76 e 77 Cost. La declaratoria deve essere estesa all’intero comma 1, perché gli ultimi tre periodi sono strettamente collegati a quelli precedenti (oggetto delle censure), sicché resterebbero privi di significato a seguito della caducazione di questi.

Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, e quindi in via consequenziale alla decisione adottata, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale: a) dell’art. 4, comma 3, del decreto legislativo n. 28 del 2010, limitatamente al secondo periodo («L’avvocato informa altresì l’assistito dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale») e al sesto periodo, limitatamente alla frase «se non provvede ai sensi dell’articolo 5, comma 1»; b) dell’art. 5, comma 2, primo periodo, del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «Fermo quanto previsto dal comma 1 e», c) dell’art. 5, comma 4, del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «I commi 1 e» ; d) dell’art. 5, comma 5, del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «Fermo quanto previsto dal comma 1 e»; e) dell’art. 6, comma 2, del detto decreto legislativo, limitatamente alla frase «e, anche nei casi in cui il giudice dispone il rinvio della causa ai sensi del quarto o del quinto periodo del comma 1 dell’articolo cinque,»; f) dell’art. 7 del detto decreto legislativo, limitatamente alla frase «e il periodo del rinvio disposto dal giudice ai sensi dell’art. 5, comma 1»; g) dello stesso articolo 7 nella parte in cui usa il verbo «computano», anziché «computa»; h) dell’art. 8, comma 5, del detto decreto legislativo; i) dell’art. 11, comma 1, del detto decreto legislativo, limitatamente al periodo «Prima della formulazione della proposta, il mediatore informa le parti delle possibili conseguenze di cui all’art. 13»; l) dell’intero art. 13 del detto decreto legislativo, escluso il periodo «resta ferma l’applicabilità degli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile»; m) dell’art. 17, comma 4, lettera d), del detto decreto legislativo; n) dell’art. 17, comma 5, del detto decreto legislativo; o) dell’art. 24 del detto decreto legislativo.

14.— Ogni altro profilo resta assorbito.

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi;

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali);

2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale: a) dell’art. 4, comma 3, del decreto legislativo n. 28 del 2010, limitatamente al secondo periodo («L’avvocato informa altresì l’assistito dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale») e al sesto periodo, limitatamente alla frase «se non provvede ai sensi dell’articolo 5, comma 1»; b) dell’art. 5, comma 2, primo periodo, del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «Fermo quanto previsto dal comma 1 e», c) dell’art. 5, comma 4, del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «I commi 1 e»; d) dell’art. 5, comma 5 del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «Fermo quanto previsto dal comma 1 e»; e) dell’art. 6, comma 2, del detto decreto legislativo, limitatamente alla frase «e, anche nei casi in cui il giudice dispone il rinvio della causa ai sensi del quarto o del quinto periodo del comma 1 dell’articolo cinque,»; f) dell’art. 7 del detto decreto legislativo, limitatamente alla frase «e il periodo del rinvio disposto dal giudice ai sensi dell’art. 5, comma 1»; g) dello stesso articolo 7 nella parte in cui usa il verbo «computano» anziché «computa»; h) dell’art. 8, comma 5, del detto decreto legislativo; i) dell’art. 11, comma 1, del detto decreto legislativo, limitatamente al periodo «Prima della formulazione della proposta, il mediatore informa le parti delle possibili conseguenze di cui all’art. 13»; l) dell’intero art. 13 del detto decreto legislativo, escluso il periodo «resta ferma l’applicabilità degli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile»; m) dell’art. 17, comma 4, lettera d), del detto decreto legislativo; n) dell’art. 17, comma 5, del detto decreto legislativo; o), dell’art. 24 del detto decreto legislativo;

3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del decreto legislativo n. 28 del 2010 e dell’art. 16 del decreto ministeriale adottato dal Ministro della giustizia, di concerto col Ministro dello sviluppo economico, in data 18 ottobre 2010, n. 180, come modificato dal decreto ministeriale 6 luglio 2011, n. 145 (Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell’articolo 16 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28), «da soli ed anche in combinato disposto», sollevata dal Giudice di pace di Recco, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111 Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 ottobre 2012.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 6 dicembre 2012.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella MELATTI

Allegato:

ordinanza letta all’udienza del 23 ottobre 2012

ORDINANZA

Visti gli atti relativi al giudizio di legittimità costituzionale introdotto con ordinanza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (TAR) depositata il 12 aprile 2011 (n. 268 Reg. ordinanze 2011);

Visti gli atti relativi al giudizio di legittimità costituzionale introdotto con ordinanza del Tribunale di Genova depositata il 18 novembre 2011 (n. 108 Reg. ordinanze 2012);

rilevato che nel primo dei detti giudizi di legittimità costituzionale (R. O. n. 268 del 2011) sono intervenuti: il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano; la Società Italiana Conciliazione Mediazione e Arbitrato (SIC&A), s. r. l.; l’Associazione Nazionale Mediatori e Conciliatori; l’Unioncamere – Unione Italiana delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura; la Camera di commercio di Cagliari; la Camera di commercio di Firenze; la Camera di commercio di Milano; la Camera di commercio di Palermo; la Camera di commercio di Potenza; la Camera di commercio di Roma; la Camera di commercio di Torino; la Camera di commercio di Venezia; ASSOMEDIAZIONE – Associazione italiana organismi Privati di Mediazione e di Formazione per la Mediazione;

che nel secondo dei detti giudizi di legittimità costituzionale (R. O. n. 108 del 2012) è intervenuto, con atto depositato il 26 giugno 2012, il Consiglio Nazionale Forense;

che i soggetti e gli enti sopra indicati non sono stati parti nei giudizi a quibus;

che, per costante giurisprudenza di questa Corte, sono ammessi a intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale (oltre al Presidente del Consiglio dei Ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale), le sole parti del giudizio principale, mentre l’intervento di soggetti estranei a questo è ammissibile soltanto per i terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto ed immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (ex plurimis: ordinanza letta all’udienza del 23 marzo 2010, confermata con sentenza n. 138 del 2010; ordinanza letta all’udienza del 31 marzo 2009, confermata con sentenza n. 151 del 2009; sentenze n. 94 del 2009, n. 96 del 2008, n. 245 del 2007);

che, nei giudizi da cui traggono origine le questioni di legittimità costituzionale in discussione, i rapporti sostanziali dedotti in causa concernono profili attinenti alla mediazione nel processo civile, che possono anche riguardare interessi professionali della classe forense o delle Camere di commercio, ma concernono più in generale le posizioni che le parti intendono azionare nel processo e non mettono in gioco le prerogative del Consiglio Nazionale Forense, dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati o delle dette Camere di commercio, nonché, a maggior ragione, degli altri soggetti sopra indicati;

che l’ammissibilità d’interventi ad opera di terzi, titolari di interessi soltanto analoghi a quelli dedotti nel giudizio principale, contrasterebbe con il carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale, in quanto l’accesso delle parti al detto giudizio avverrebbe senza la previa verifica della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione da parte del giudice a quo;

che, pertanto, gli interventi spiegati nei giudizi di legittimità costituzionale sopra indicati dai soggetti di cui in motivazione devono essere dichiarati inammissibili.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili gli interventi spiegati dai soggetti di cui in motivazione nei giudizi di legittimità costituzionale R. O. n. 268 del 2011 e n. 108 del 2012.

F.to: Alfonso Quaranta, Presidente

Pubblicato in Senza categoria | Lascia un commento

Emendamento 16.0.2 De Lillo/Ghigo

In seguito alla decisione della Consulta di dichiarare inconstituzionale la mediazione obbligatoria per eccesso di delega legislativa, è stato presentato al Senato un emendamento al DL Sviluppo con l’obiettivo di sanare tale eccesso di delega; l’emendamento è stato dichiarato ammissibile e verrà discusso nei prossimi giorni.

Rispetto alla normativa previgente, due importanti cambiamenti sono stati previsti: una data certa fino alla quale la mediazione civile e commerciale sarà obbligatoria; la possibilità per il mediatore di fare una proposta, solo se la parte è assistita da un avvocato.

Di seguito il testo integrale dell’emendamento:

 

Art. X Mediazione delle controversie civili e commerciali: condizione di procedibilità.
Al decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28, sono apportate le seguenti modifiche:

a)      l’articolo 5 comma 1 è sostituto dal seguente:

“1. Sino al 31 dicembre 2017, chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto, ovvero il procedimento di conciliazione previsto dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, ovvero il procedimento istituito in attuazione dell’articolo 128-bis del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, per le materie ivi regolate. L’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6 del presente decreto. Allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione. Il presente comma non si applica alle azioni previste dagli articoli 37, 140 e 140-bis del codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni.

b)      All’articolo 11, comma 1, dopo le parole “Quando l’accordo non è raggiunto, il mediatore” e prima delle parole “può formulare una proposta di conciliazione.”, sono inserite le seguenti: “, se le parti partecipano al procedimento di mediazione e sono assistite da un avvocato,”

Pubblicato in Senza categoria | Lascia un commento

Mediazione obbligatoria: primi chiarimenti dal Ministero

Il Ministero di Giustizia ha emanato una circolare per fornire i primi chiarimenti sull’obbligo di mediaconciliazione, dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale. La pronuncia non è stata ancora depositata, ma con la sua pubblicazione – avvertono dal Ministero – decadrà l’obbligo di mediazione.

La nota – diramata dal Dipartimento per gli Affari di Giustizia, Direzione generale della giustizia civile–  fa seguito alla pubblicazione del comunicato stampa con cui la Corte Costituzionale ha diffuso la notizia di aver dichiarato l’illegittimità costituzionale, per eccesso di delega legislativa, del d.lgs.4 marzo 2010 n. 28 nella parte in cui ha previsto il carattere obbligatorio della mediazione. Il comunicato aveva anticipato la pronuncia, della quale si attende ancora il deposito da parte della Corte.

Nella circolare il Ministero fa sapere che potrà dare indicazioni più precise sugli effetti della pronuncia, e relativamente ai compiti di vigilanza ad essa riconducibili, solo dopo averne letto le motivazioni. Solo due – si legge nel comunicato – le indicazioni che possono essere anticipate.

La prima riguarda gli  interessati alla iscrizione di un nuovo organismo di mediazione nell’apposito registro, i quali dovranno tenere presenti i futuri effetti che la pronuncia potrebbe produrre sulle previsioni del DM180/2010 da essa direttamente interessate (la circolare fa riferimento agli artt. 7, co. 5 lett. d; 16, co. 4 lett. d; 16, co. 9, ultimo periodo).

La seconda coinvolge i procedimenti di mediazione già avviati e le eventuali istanze presentate prima della pubblicazione della decisione della Corte. In tali casi l’organismo di mediazione deve informare le parti sulla decadenza dell’obbligo di conciliazione. Obbligo che verrà meno subito dopo la pubblicazione della pronuncia della Corte Costituzionale in Gazzetta Ufficiale.

 

 

Qui il testo integrale della circolare:

Ministero della Giustizia, Circolare 12 novembre 2012

Pronuncia della Corte costituzionale sulla illegittimità costituzionale della obbligatorietà della mediazione di cui al d.lgs. n. 28/2010. Prime indicazioni.

Dipartimento per gli Affari di Giustizia Direzione generale della giustizia civile

Con il comunicato del 24 ottobre 2012 l’ufficio stampa della Corte costituzionale ha reso noto che è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale, per eccesso di delega legislativa, del d.lgs. 4 marzo 2010 n. 28 nella parte in cui ha previsto il carattere obbligatorio della mediazione.

Preme precisare che chiare e puntuali indicazioni circa le ricadute degli effetti della suddetta pronuncia nell’ambito riconducibile ai compiti di vigilanza di questa direzione generale non potranno non essere date che a seguito della lettura della motivazione. La ricezione, peraltro, del comunicato di cui sopra induce sin da ora a precisare che ai sensi dell’art. 136 della Costituzione e dell’art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87, gli effetti della deliberazione di accoglimento decorrono dal giorno successivo alla pubblicazione del dispositivo della decisione.

Due specifiche indicazioni, peraltro, possono allo stato essere date in questo contesto:

gli interessati alla iscrizione di un nuovo organismo di mediazione nel registro degli organismi tenuto da questa direzione generale, dovranno tenere presenti i futuri effetti che la suddetta pronuncia potrebbe produrre sulle previsioni del d.m. 180/2010 che verranno ad essere direttamente interessate, e segnatamente:

art. 7 , comma 5 lett.d);

art. 16, comma 4 lett. d);

art. 16, comma 9, ultimo periodo.

per i procedimenti di mediazione obbligatoria già attivati nonchè per le eventuali nuove istanze rientranti comunque nell’ambito della previsione di cui all’art. 5 del d.lgs. 28/2010 che dovessero essere presentate prima della pubblicazione della decisione della Corte, l’organismo di mediazione è tenuto ad uno specifico obbligo di informazione della parte istante (nonchè della parte eventualmente comparsa) del venire meno, dal momento della pubblicazione della decisione della Corte costituzionale sulla Gazzetta ufficiale, dell’obbligatorietà del tentativo di mediazione.

Roma, 12 novembre 2012.

Il direttore generale

Maria Teresa Saragnano

 

Pubblicato in Senza categoria | Lascia un commento

Mediazione e RC-AUTO

di Natalia Risi: avvocato e mediatore MCM Conciliare

Il decreto legislativo n. 28 del 4 Marzo 2010 ha introdotto nel sistema giuridico italiano l’istituto della mediazione finalizzato alla conciliazione delle controversie civili e commerciali nelle forme della mediazione facoltativa di cui all’art 2, comma 1, obbligatoria e demandata ex art. 5 comma 1 e 2. In particolare, per quanto riguarda la mediazione obbligatoria, l’art 5, comma 1 elenca lematerie per le quali il procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale; e tra queste è indicata anche quella relativa alle controversie per il risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, che merita una profonda riflessione. Invero, la generica formulazione dell’articolo de quo e il suo mancato coordinamento con il Codice delle Assicurazioni Private pone un duplice ordine di problemi.

Il primo riguarda l’individuazione dei casi di mediazione obbligatoria, atteso che non possa ritenersi esaustiva a tale scopo una mera elencazione delle materie per stabilire quali controversie effettivamente entrano in mediazione. Non sarà quella incidentistica la materia più complessa a tal proposito, ma è pur vero che la prassi propone sempre casi limite di fronte ai quali potrebbe venire qualche dubbio circa l’applicabilità o meno della normativa in esame.
In generale, invece, e solo a titolo esemplificativo, si può evidenziare come non sia sufficiente indicare i diritti reali come materia in cui opera il tentativo di mediazione obbligatorio e lasciare irrisolto il dubbio se in essa siano inscrivibili anche quelle controversie in cui si invoca il trasferimento della proprietà del bene attraverso l’istituto dell’art 2932 cc. (Esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto), dal momento che tali controversie, pur riguardando beni,  investono pur sempre il campo dei diritti obbligatori. E si potrebbe continuare all’infinito con tali approfondimenti.

In ogni caso, in mancanza di criteri guida sicuri, spetta all’interprete il delicato compito di risolvere i casi dubbi, attenendosi a quel principio generale enunciato dalla Corte Costituzionale secondo cui l’accesso immediato alla giurisdizione ordinaria può essere ragionevolmente derogato soltanto con norme ordinarie che debbono essere considerate “ di stretta interpretazione ” (Corte cost., sentenza n. 403 del 2007).

Con riferimento  alla materia del risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, i numerosi interrogativi che si agitano nella mente di un attento operatore e ai quali si tenterà di fornire una risposta non conclusiva ma quantomeno soddisfacente, attengono alla portata e agli effetti della nuova normativa e ai suoi rapporti con il processo civile.

Sotto questo profilo, ci si chiede cosa accade quando per una materia caratterizzata da un elevato livello di conflittualità come quella dell’infortunistica, il legislatore prevede, oltre alla condizione di procedibilità della domanda giudiziale ex art 5 comma 1, anche una ulteriore condizione di proponibilità della stessa.

Com’è noto, in materia di  risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti l’art 145, comma 1 e 2 del d.lgs. 7 Settembre 2005 , n. 209 prevede che: << l’azione per il risarcimento dei danni causati dalla circolazione dei veicoli e dei natanti, per i quali vi è obbligo di assicurazione, può essere proposta solo dopo che siano decorsi sessanta giorni, ovvero novanta in caso di danno alla persona, decorrenti da quello in cui il danneggiato abbia chiesto all’impresa di assicurazione il risarcimento del danno, a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento>>. Ebbene, ancora una volta si richiede all’interprete di chiarire il rapporto tra il tentativo obbligatorio di mediazione e la condizione obbligatoria prescritta dalla normativa speciale, ai fini della corretta proponibilità della domanda giudiziale per il risarcimento danni. In altri termini, colui che intende chiedere il risarcimento del danno deve preliminarmente espletare l’attività di invio della messa in mora e successivamente dare impulso al procedimento di mediazione oppure le due attività possono esser compiute contestualmente?

La soluzione ermeneutica, per quanto prematura rispetto all’entrata in vigore dell’obbligatorietà della mediazione civile per la materia in commento  prevista per il 20 Marzo 2012 (data rimasta invariata a seguito dell’ ultimo “Milleproroghe”), risulta doverosa se si vuole contribuire a rendere effettivo il sistema della mediazione e a diffondere la cultura conciliativa.
Logica sistematica vorrebbe che si proceda prima con l’inoltro della lettera raccomandata, ove si consideri che tale attività si pone quale condizione di proponibilità della domanda giudiziale e dunque quale presupposto processuale che deve necessariamente preesistere all’instaurazione del giudizio. Esaurita tale fase precontenziosa, comprensiva anche dell’attività di risposta della compagnia assicuratrice, sarebbe possibile presentare istanza di mediazione.
Per questo, parte della dottrina ritiene che il rapporto tra i due istituti vada costruito in termini di consequenzialità-sussidiarietà dell’azione giudiziaria (Bove, La mediazione per la composizione delle controverie civili e commerciali, p.p.179-180). Tuttavia, al fine  di non allungare ulteriormente i tempi della giustizia con ripercussioni negative sulle ragioni e sui diritti dei soggetti coinvolti, ma, al tempo stesso, senza compromettere l’utilità e le possibilità di successo della mediazione, si ritiene che vada privilegiata una differente soluzione interpretativa che preveda l’adempimento di entrambe le condizioni in un unico spazio temporale.

In linea con tale impostazione, si propone di inoltrare la messa in mora all’assicurazione e nello stesso momento presentare la domanda di mediazione presso un organismo iscritto, con espressa richiesta di fissare l’incontro dopo la scadenza dei termini previsti dal Codice delle assicurazioni private. Anzi, volendosi spingere oltre, nulla vieterebbe di dare inizio al procedimento di mediazione e di chiedere a mezzo raccomandata (si può scegliere se con una sola raccomandata o con più raccomandate) all’istituto assicurativo sia il risarcimento dei danni sia di presentarsi innanzi all’ organismo di mediazione alla data fissata per il primo incontro, al fine di risolvere  la controversia in modo amichevole .

Questa tesi interpretativa presenta l’indubbio vantaggio di esaurire nel più breve tempo possibile sia la condizione di proponibilità sia la condizione di procedibilità della domanda giudiziale. In tal modo, qualora non si dovesse giungere ad una definizione stragiudiziale della controversia, si potrà contare su di un incontro già fissato per trovare, in sede di mediazione, un accordo capace di soddisfare le esigenze di entrambe le parti. Inoltre, anche quando l’accordo dovesse raggiungersi solo in parte in via stragiudiziale, il vantaggio che offre il nuovo strumento consensuale conserverebbe tutta la sua utilità.

Invero, potrebbe accadere che la compagnia assicuratrice, pur avendo riconosciuto il verificarsi dell’evento dannoso, contesti il quantum debeatur del risarcimento ed allora, si tenterà la mediazione per addivenire ad una intesa limitatamente alla quantificazione  del danno evitando, così, di agire in giudizio con notevoli vantaggi in termini di costi e di tempi.

Quid iuris nel caso in cui nelle more del procedimento di mediazione è notificato l’atto di citazione e quali le conseguenze?

Innanzitutto, l’udienza di prima comparizione dovrà essere fissata tenuto conto del decorso del termine di quattro mesi dal deposito della domanda di mediazione, altrimenti sarà il giudice, una volta rilevato che la mediazione è già iniziata ma non ancora conclusa, a fissare la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’art. 6 comma 1 del D.lgsl. 28/10.

In secondo luogo, bisogna distinguere le diverse ipotesi che si possono verificare a seconda che l’accordo sia totale, parziale o, invece, non sia raggiunto affatto. Infatti, qualora, in sede di mediazione, sia raggiunto  un accordo che investa la controversia nella sua interezza, il giudizio ordinario si definirà con sentenza dichiarativa della cessazione della materia del contendere; nell’ipotesi in cui si arrivi ad un accordo che definisce soltanto alcuni aspetti della controversia, il processo potrà continuare ma, soltanto rispetto alla parte ancora controversa mentre verrà dichiarata la cessazione della materia del contendere limitatamente alla parte oggetto della conciliazione; infine, in caso di mancato accordo, il processo potrà continuare in quanto procedibile.

Da ultimo, va rilevato che anche le richieste di risarcimento danni presentate in data anteriore al 20 Marzo 2012, soggiacciono alla disciplina della mediazione, pena l’improcedibilità della domanda giudiziale, in ossequio al principio di diritto secondo cui bisogna avere riguardo al tempo della proposizione della domanda giudiziale per individuare la normativa applicabile, sempreché non sia stato raggiunto un  accordo stragiudiziale a seguito dell’avvio della procedura di cui all’ art. 145, comma 1 e 2 del d.lgs. 7 Settembre 2005, n. 209.

fonte: www.mcmconciliare.com

Pubblicato in Senza categoria | Lascia un commento

Condominio e mediazione obbligatoria

Scritto da Ghigo Giuseppe Ciaccia (avvocato e mediatore MCM Conciliare)

Dal 20 marzo 2012 la procedura di mediazione obbligatoria riguarderà anche la materia condominiale e la responsabilità civile per i danni derivanti da circolazione di autoveicoli (“L’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale”: art. 5, primo comma, D.Lgs. n. 28/2010).Tralasciando in questa sede le problematiche relative allo “tsunami” che produrrà il settore dell’R.C. auto, è opportuno valutare l’impatto di questa novità in ambito condominiale, che sarà certamente dirompente tenuto conto che in Italia oltre la metà della popolazione – e nelle grandi città la quasi totalità dei cittadini – vive in condominio (peraltro, a conferma di quanto appena affermato, si evidenzia che, secondo i dati del Censis, su tutte le vertenze nel2007, circa il 4,5% sono state in ambito condominiale).La materia condominiale è particolare, perché a differenza del resto del diritto civile, che è regolato dalle norme del codice e dalla legislazione, quello condominiale sembra quasi essere un enclave improntato al “common law” anglosassone all’interno del nostro ordinamento. Ed infatti, essendo la materia condominiale basata sulla oramai superata normativa codicistica ossia su regole dettate per un istituto che, all’epoca della normazione del codice, era, a dir poco, embrionale oggi si aspetta, oramai da decenni, la riforma del diritto condominiale.

Nell’attesa che il legislatore adegui le norme ai tempi la magistratura ha dovuto supplire con interventi che, più che interpretare, hanno tentato di “riscrivere” le regole. Per tale motivo ritengo che, in materia condominiale, sembra che l’ordinamento italiano ammetta un sistema quasi di “common law” ossia basato sui precedenti giurisprudenziali più che su codici e leggi.

Ed infatti molti argomenti sono stati oggetto di mutamento di orientamento anche solo negli ultimi anni (basti pensare alla possibilità di modifica delle tabelle millesimali “a maggioranza” e non all’unanimità o alla “vexata questio” della parziarietà e solidarietà su cui si dibatte praticamente da sempre, e che vede il prevalere alternativo dei “seguaci” del Branca e del Salis ad ogni cambio di composizione della Suprema Corte).

In relazione quindi al procedimento di mediazione, il problema preliminare è quello di stabilire se l’amministratore sia legittimato – senza il preventivo consenso dell’assemblea – a decidere se partecipare o meno al procedimento di mediazione e, in caso ritenga di dovervi partecipare, se debba essere assistito.

Sul punto è bene ricordare che un argomento del quale si dibatte da tempo è quello del potere dell’amministratore di conferire mandato ad un legale per rappresentare il condominio in giudizio. Anche su tale argomento si assiste ad un alternarsi di orientamenti che non ha mai portato ad una definizione precisa della materia.

Per un lungo periodo dottrina e giurisprudenza ritenevano – sulla base di una interpretazione estensiva dell’art. 1131 del codice civile – che l’amministratore fosse legittimato, anche senza il preventivo consenso dell’assemblea condominiale, a poter “resistere” in giudizio ed a proporre azioni a difesa delle parti comuni (ossia nei limiti dell’art. 1130 n. 4), salvo poi la ratifica successiva dell’assemblea condominiale; mentre per le liti “attive” era comunque necessario il preventivo consenso dell’assemblea dei condomini.

Poi un orientamento diverso e, a mio modesto avviso, migliore, ha preso piede sulla base di alcune lungimiranti pronunzie sia di merito che di legittimità.
In particolare si evidenzia quanto stabilito sul punto dalla Cassazione nel 2004 (con sentenza n. 22294 pronunciata il 26.11.2004; edita, tra l’altro, in Foro It., 2005, 7/8, I, 2082 ss.) che ha ritenuto che il convincimento in ordine alla sussistenza di una generale legittimazione passiva dell’amministratore trovi il suo fondamento in una erronea interpretazione degli artt. 1131 commi I e II c.c., alla stregua del quale se l’amministratore può risultare destinatario della notificazione di qualunque azione concernente le parti comuni dell’edificio da ciò discenderebbe l’illimitatezza dei suoi poteri rappresentativi processuali dal lato passivo e, pertanto, ha statuito che: “Il collegio ritiene di non condividere tale orientamento, in quanto basato su una interpretazione dell’art. 1131, secondo comma, cod. civ. che non tiene conto della ratio ispiratrice di tale norma, la quale è diretta a favorire il terzo il quale voglia iniziare un giudizio nei confronti del condominio, consentendogli, invece di citare tutti i condomini, di notificare la citazione all’amministratore. Nulla, invece, nella norma in questione giustifica la conclusione secondo la quale l’amministratore sarebbe anche autorizzato a resistere in giudizio senza essere a tanto autorizzato dall’assemblea. Una volta chiarito tale punto, va rilevato che, in considerazione del fatto che la c. d. autorizzazione della assemblea a resistere in giudizio in sostanza non è che un mandato all’amministratore a conferire la procura ad litem al difensore che la stessa assemblea ha il potere di nominare, per cui, in definitiva, l’amministratore non svolge che una funzione di mero nuncius “.

Sul punto è intervenuta anche la dottrina (Dott. Gian Andrea Chiesi, magistrato, in “Spia al Diritto” del 28.9.2005) che ha notato che: “l’autorizzazione dell’assemblea a resistere si pone quale condicio sine qua non affinchè l’amministratore, nella propria veste di mandatario, possa conferire il mandato difensivo ad un legale e sottoscrivere la relativa procura alle liti. In mancanza, non potrà che concludersi – e salva la facoltà del Giudice di disporre l’integrazione delle necessarie autorizzazioni, ex art. 182 cod. proc. civ. – per l’inammissibilità della costituzione in giudizio del condominio e la declaratoria di contumacia dello stesso (con le conseguenti responsabilità in capo all’amministratore)” ed ancora “i condomini si vedono involontariamente coinvolti in un giudizio, senza neppure essere a conoscenza degli atti di causa – casomai addirittura condividendo le motivazioni sottese alla lite – e salvo essere posti, solo in un secondo momento e a “giochi fatti”, di fronte all’alternativa tra la ratifica, da un lato, di una nomina già effettuata “motu proprio” dall’amministratore e la scelta, dall’altro, di un legale di fiducia del condominio (non di un suo, pur qualificato, rappresentante) ovvero di dissentire rispetto alla lite, con duplicazione, nel primo caso, di esborsi, ovvero, nella seconda ipotesi ed in caso di vittoria, con possibile sostenimento di spese non volute (cfr., a tale ultimo proposito, l’art. 1132, comma 3, cod. civ.)” (sul punto cfr. conforme anche Izzo, Milano, 2005, 209); conforme anche la migliore magistratura di merito (“in assenza della delibera dell’assemblea dei condomini che autorizzi l’amministratore a resistere in giudizio, l’amministratore è carente di legittimazione processuale, donde discende l’irritualità della costituzione del rapporto processuale e, per l’effetto, l’inammissibilità della costituzione in giudizio del condominio“: Tribunale di Torre Annunziata, sezione distaccata di Torre del Greco, sentenza 19 ottobre 2006).

E’ concorde sul punto anche la giurisprudenza amministrativa che ha ritenuto che fosse “inammissibile l’atto di intervento in giudizio di un condominio ove la deliberazione assembleare con cui è stato ratificato l’intervento risalga a epoca successiva alla notifica dell’atto di intervento stesso” (T.A.R. Lombardia Milano, 4.7.2002, n. 3115), ovvero che “l’amministratore di condominio non è legittimato a impugnare -in difetto di delibera dell’assemblea dei condomini- il provvedimento sindacale contingibile e urgente adottato nei confronti del condominio” (Cons. Stato, 21.7.1988, n. 478).

Questa corretta interpretazione è stata poi confermata anche dalla Cassazione nel 2006 (cfr. sentenza della II sezione civile del25.1.2006 n. 1446) che ha espressamente statuito commentando la ratio dell’art. 1131, secondo comma che: “Nulla, contemporaneamente, nella stessa norma, giustifica la conclusione secondo cui l’amministratore sarebbe anche legittimato a resistere in giudizio senza essere a tanto autorizzato dall’assemblea. Considerato, inoltre, che la cosiddetta autorizzazione dell’assemblea a resistere in giudizio in sostanza non è che un mandato d’amministratore a conferire la “procura ad litem” al difensore che la stessa assemblea ha il potere di nominare, in definitiva, l’amministratore non svolge che una funzione di mero “nuncius” e che pertanto è inammissibile l’azione proposta dall’amministratore” senza espressa autorizzazione della assemblea“.

Sul punto è poi intervenuta nuovamente la Suprema Corte con una pronunzia, a Sezioni Unite, (la n. 18331 del 6.8.2010) che ha specificamente statuito che: “Sulla questione sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite esistono nella giurisprudenza di legittimità due diversi orientamenti: il primo (maggioritario) afferma che l’amministratore può costituirsi nel giudizio promosso nei confronti del condominio e può impugnare la sentenza sfavorevole al condominio pur se a tanto non autorizzato dall’assemblea condominiale; il secondo (minoritario) sostiene, invece, che in assenza di tale deliberazione assembleare l’amministratore e’ privo di legittimazione a costituirsi e ad impugnare. …… Alla luce delle considerazioni svolte va enunciato il seguente principio di diritto: “L’amministratore di condominio, in base al disposto dell’art. 1131 c.c., comma 2 e 3, può anche costituirsi in giudizio e impugnare la sentenza sfavorevole senza previa autorizzazione a tanto dall’assemblea, ma dovrà, in tal caso, ottenere la necessaria ratifica del suo operato da parte dell’assemblea per evitare pronuncia di inammissibilità dell’atto di costituzione ovvero di impugnazione“.

Per contro l’opposta teoria tradizionale ha trovato nuova linfa da una ultima e recentissima Cassazione (sentenza del 23.8.2011 n. 17577) che ha statuito “in tema di controversie condominiali, la legittimazione dell’amministratore del condominio, dal lato attivo coincide con i limiti delle sue attribuzioni, mentre dal lato passivo, non incontra limiti e sussiste in ordine ad ogni azione concernente le parti comuni dell’edificio“.

In seno a tale problematica era interessante stabilire l’efficacia processuale di una delibera successiva che avesse ratificato l’operato dell’amministratore inizialmente sprovvisto del mandato assembleare.
Sul punto si era più volte espressa la giurisprudenza statuendo ad esempio che “Il conferimento da parte dell’assemblea condominiale all’amministratore del condominio del potere di stare in giudizio in una controversia non rientrante tra quelle che può autonomamente proporre ai sensi del primo comma dell’art. 1131 cod. civ. può sopravvenire utilmente, con effetto sanante, dopo la proposizione dell’azione.“: Cassazione del 13.12.2006 sentenza n. 26689 (in rigetto, all’App. Torino del31.12.2002).

Va segnalato che, in sede processuale, altri ritenevano comunque, preliminarmente, che, il terzo non potesse eccepire il superamento dei poteri dell’amministratore, essendo i limiti degli artt. 1130 e 1131 c.c. posti a salvaguardia esclusiva dei diritti dei condomini (Cass. Sez. II 20 febbraio 1997, n.1559); ed infatti questi ultimi, possono sempre ratificare l’operato dell’amministratore (App. Milano, 20 novembre 1998).
E ciò sulla base della considerazione che la procura ad litem, rilasciata dalla parte processuale al suo difensore ai sensi dell’art. 83 c.p.c., lungi dal costituire un atto processuale è un negozio giuridico rientrante nell’istituto della rappresentanza e che pertanto a tale figura si applica una disciplina speciale data dall’insieme delle disposizioni contenute nel codice di procedura civile (artt. 83 c.p.c.) e da quelle contenute nel Libro lV, Capo VI del Codice Civile riguardanti la rappresentanza; e poiché l’art. 83 c.p.c. non si pronunzia in alcun modo sugli effetti della procura successiva si devono, quindi, analizzare le disposizioni generali del diritto civile e processuale vigente; in proposito dal combinato disposto degli articoli 1398 e 1399 c.c. emerge la possibilità del rappresentato di ratificare l’opera di chi ha agito in nome e per conto di altri senza averne i poteri; e nel caso in questione tale fattispecie è comunque di gran lunga di gravità minore posto che il mandato è comunque sottoscritto dall’amministratore di condominio, ossia dal legale rappresentante dell’ente condominiale e non ad esempio da un falsus procurator; sul punto si è espressa la Suprema Corte proprio che, in merito agli effetti della procura ad litem sul rappresentato, ha stabilito che: “Ai fini del valido conferimento della procura rilasciata a margine dell’atto di citazione non è necessario che esso sia contestuale o successivo alla redazione della citazione, non essendo richiesta a pena di nullità la dimostrazione della volontà della parte di fare proprio il contenuto dell’atto nel momento stesso della sua formazione o ex post” (Cass. 8904/94); e, quanto agli effetti sananti della ratifica, basta ricollegarsi a quanto statuito dall’art. 1399 c.c..

Tale interessante problematica processuale – anche in riferimento ad un’eventuale eccezione di difetto di jus postulandisollevata tempestivamente in relazione non solo al disposto dell’art. 163 n. 5 c.p.c. ma, anche, alla normativa sulle preclusioni alle attività difensive come novellata dalla riforma del codice di rito del2005 – è di fatto stata “sterilizzata” dalla riforma dell’art. 182 c.p.c. (come riscritto dall’art. 46 comma II della legge n. 69 del 18 giugno 2009) che ha rafforzato il potere del giudice di poter invitare le parti a sanare la posizione processuale mediante il deposito di atti e documenti.

E quindi parrebbe che la produzione documentale sanante non incontri limiti preclusivi proprio a norma del disposto dell’art. 182 c.p.c. novellato, in forza del quale l’autorizzazione del Condominio sarebbe potuta addirittura sopravvenire dopo l’instaurazione del giudizio con efficacia sanante ex nunc (cfr. G. Buffone, in “Sanabilità dei vizi afferenti alla validità della procura”, scritto presentato al seminario di formazione professionale tenuto dall’Ordine degli avvocati di Catanzaro del 14 luglio 2009, dal titolo “Prime riflessioni sulla novella al codice di procedura civile”).

Ciò posto la giurisprudenza si è sempre orientata per il difetto di legittimazione in caso di mancanza di mandato per le cause “attive” (cfr. Tribunale di Napoli- IV sezione civile, sentenza n. 7510/2010 del1.7.2010 nella quale nel rigettare le vane istanze del condominio il giudice ha espressamente statuito che poiché “il mandato condominiale … non risulta essere stato conferito per procedere alla proposizione della domanda giudiziale nei confronti …” … “dichiara inammissibile la domanda proposta dal condominio sito in … in persona dell’amministratore pro tempore …“.; parimenti ha sanzionato il difetto di “jus postulandi“, acclarandone anche la nullità dell’azione proposta il Tribunale di Napoli, III sezione civile del18.3.2011, che ha statuito che “il ricorso introduttivo del presente giudizio deve ritenersi nullo” poiché “secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, inoltre, il difetto di legittimazione processuale dell’amministratore di un condominio, attenendo alla legittimità del contraddittorio, nonché alla validità della sua costituzione, determina la nullità degli atti processuali compiuti ed è rilevabile anche d’ufficio” (Corte di Cassazione sentenza n. 1926/1997). Pertanto nel caso in esame la procura doveva essere rilasciata da una persona della quale fosse non solo dichiarata, ma anche dimostrata la qualità di titolare del potere rappresentativo sulla base di una specifica delibera o del regolamento condominiale, che non risultano, invece, prodotti in giudizio.

Sul punto la Corte di Cassazione ha precisato che “in tema di condominio di edifici colui che agisce in giudizio in nome del condominio deve dare la prova, in caso di contestazione, della veste di amministratore e quando la causa esorbita dai limiti di attribuzione dell’art. 1130 cod. civ., di essere autorizzato a promuovere l’azione contro i singoli condomini o terzi. Tale onere probatorio è da ritenersi assolto con la produzione della delibera dell’assemblea condominiale dalla quale risulti che egli è l’amministratore e che gli è stato conferito mandato a promuovere l’azione giudiziaria. (Corte di Cassazione sentenze n. 85200003, n. 13164/2001, 6697/1991).” e quindi “in conclusione il ricorso deve ritenersi nullo” e “P.Q.M. il Tribunale … dichiara la nullità del ricorso introduttivo del presente giudizio.“.

Fatta tale necessaria premessa processuale si può passare ad analizzare quali siano le facoltà dell’amministratore di poter decidere se intervenire ad una procedura di mediazione. La soluzione a tale problematica non è assolutamente scontata né univoca.

Ed infatti, proprio per quanto sopra esposto in relazione alle problematiche processuali, non si può considerare automatica la legittimazione dell’amministratore in materia di mediazione.

Già concettualmente la mediazione tramite amministratore di condominio è fortemente “depotenziata” rispetto a quella tradizionale, posto che la partecipazione dell’amministratore alla conciliazione postula, come necessario presupposto, l’assenza dei condomini (che sono la parte interessata in quanto titolari dei diritti oggetto del futuro eventuale processo, dato che il condominio è comunque un ente di gestione); il mediatore infatti ha, tra le varie funzioni, quella di chiarire alle parti quali possano essere le eventuali possibili soluzioni e ciò anche indipendentemente dall’eventuale esito processuale o dalle ragioni giuridiche delle parti.

All’uopo non soccorre la novella “punitiva” in materia di. mediazione (art. articolo 8, comma 5 decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28) che, anzi, acuisce solo le eventuali responsabilità dell’amministratore, posto che, per tale norma, il giudice adito condanna, con ordinanza non impugnabile pronunciata d’ufficio alla prima udienza, la parte costituita che non ha partecipato al procedimento di “mediazione obbligatoria” senza giustificato motivo al versamento di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per giudizio. E, d’altra parte, i termini necessariamente ristretti che intercorrono tra la convocazione e la seduta di mediazione (e l’informativa spesso lacunosa dell’oggetto della mediazione) con quasi certezza impediranno la preventiva convocazione di un’assemblea di condominio, che fornisca all’Amministratore le necessarie indicazioni su come comportarsi rispetto al procedimento di mediazione.

La posizione dell’amministratore è perciò assolutamente “scomoda”. Ed infatti, tale nuova normativa pone all’amministratore un ristretto ventaglio di possibili scelte, nessuna delle quali sicura e/o corretta. Mentre, infatti, pare consolidato l’orientamento che ritiene che rientri nell’ambito delle facoltà dell’amministratore quella di sottoscrivere l’informativa relativa alla possibilità di avvalersi della mediazione, non altrettanto chiara e concorde è la dottrina sulla possibilità dell’amministratore di essere parte del procedimento di mediazione senza il preventivo assenso dell’assemblea condominiale.

Per quel che concerne la procedura di mediazione obbligatoria, pertanto, qualsiasi scelta operata dall’amministratore, sebbene in buona fede e nell’esclusivo interesse del condominio, potrebbe – in astratto – essere oggetto di critica dal condominio (o da alcuni condomini).

A titolo meramente esemplificativo, se vi è una comunicazione di un invito in mediazione per una richiesta di risarcimento danni da infiltrazioni l’amministratore può:
l) non aderire
2) aderire ed andare da solo in mediazione
3) aderire ed andare accompagnato da un legale
4) aderire ed andare accompagnato da un legale e con l’ausilio di un perito (es. ingegnere).

Qualsiasi di queste scelte comporta una assunzione di responsabilità in quanto:
–    se da una parte chiedere l’ausilio di un consulente (legale e tecnico) impone un onere economico;
–    il non andare o l’andare senza consulente può produrre effetti negativi (processuali o sull’esito della mediazione).

Poniamo ad esempio l’ipotesi in cui l’eventuale successivo procedimento rientri nelle competenze dell’amministratore (e che, quindi, tale fattispecie non richieda il preventivo assenso assembleare), lo stesso amministratore sarà tenuto a promuovere l’azione giudiziaria ed a conferire mandato (ad esempio in materia di difesa delle parti comuni), altrimenti potrebbe essere citato in giudizio per rispondere dei danni; ma come deve comportarsi l’amministratore in caso di invito comunicato al condominio come parte di un procedimento di mediazione?
E in tale caso l’assicurazione professionale dell’amministratore “coprirà” le eventuali scelte “sbagliate” (o comunque non condivise/ratificate dal condominio) pre-processuali (es. mancata partecipazione alla mediazione) che però non solo hanno conseguenze processuali (es. ex II comma art. 116 c.p.c.) o economiche (condanna, ex art. articolo 8, comma 5 d.l. 4.3.2010, n. 28, al pagamento del contributo unificato)?

L’amministratore, in caso di ricevimento di atto di un invito al procedimento in mediazione, potrebbe inviare una comunicazione all’ente di conciliazione per richiedere di posticipare il primo incontro in modo da avere il tempo di convocare l’assemblea, ma – indipendentemente dall’esito di tale richiesta – il problema potrebbe anche non essere risolto posto che l’assemblea potrebbe anche non deliberare (es. andare “deserta”).

Onde evitare l’inconveniente segnalato, riterrei opportuno che, ancor prima della prossima entrata in vigore della normativa in esame (e comunque prima che giungano gli “inviti” per le future procedure di mediazione), venga convocata dall’Amministratore una assemblea di Condominio con uno specifico punto all’o.d.g. che metta l’assemblea nelle condizioni di scegliere, preventivamente, come indirizzare l’operato dell’amministratore ed in tal modo esoneri l’amministratore dal dover decidere assumendosi la responsabilità della scelta.

Uno schema base del punto da inserire nell’o.d.g. potrebbe essere il seguente:

Mediazione ex D.Lgs. n. 28/2010: entrata in vigore del tentativo obbligatorio di mediazione in materia condominiale.dal marzo 2012. Eventnali delibere in merito alla preventiva autorizzazione all’amministratore pro tempore del condominio a partecipare al procedimento di mediazione. Eventnale delibera di autorizzazione preventiva all’amministratore a conferire mandato ad un avvocato per l’assistenza e la consulenza in sede di mediazione ed anche eventualmente in sede giudiziaria in caso di mancata conciliazione. Eventnale delibera di autorizzazione preventiva all’amministratore per conferire l’incarico ad un perito/tecnico per l’assistenza e la consulenza in sede di mediazione ove la materia lo richieda.”.

La delibera dovrebbe poi dare istruzioni anche in riferimento alle varie possibili ipotesi di argomenti oggetto della mediazione (come nell’esempio del danno da infiltrazioni deve essere chiarito se l’amministratore deve aderire alla mediazione e se deve essere assistito da un legale e da un perito).

E’, a mio avviso, utile tale discussione preventiva in seno all’assemblea anche se poi, chiaramente, ove, in sede di mediazione, si prospetti una concreta ipotesi di conciliazione, l’amministratore dovrà comunque convocare nuovamente l’assemblea ponendo all’o.d.g. i termini precisi della eventuale proposta; in questo caso, se l’assemblea deliberasse di accettare la proposta, tale proposta dovrà essere integralmente recepita – ossia negli stessi termini della delibera condominiale – nel verbale di conciliazione.

Problema ulteriore si porrebbe nel caso in cui la proposta fosse dall’assemblea deliberata, ma con quorum insufficienti. A mio avviso, in caso di mancata impugnazione, l’amministratore dovrebbe comunque procedere a sottoscrivere il verbale di conciliazione. Più problematica sarebbe la posizione dell’amministratore in caso di impugnativa posto che, fino all’eventuale sospensione e/o annullamento, l’amministratore sarebbe comunque tenuto ad eseguire il deliberato, ma le conseguenza giuridiche – a lungo termine posti i tempi della giustizia – dell’eventuale annullamento del deliberato sarebbero difficilmente riproducibili in un verbale di conciliazione; il tutto con la prevedibile conseguenza che l’altra parte del procedimento sarebbe quindi poco motivata a concludere positivamente la mediazione.

Nonostante la disciplina della mediazione non abbia radicamento territoriale – probabilmente perché all’epoca del concepimento della normativa il legislatore non sapeva quanti organismi di mediazione sarebbero sorti e dove sarebbero stati ubicati- si deve ritenere, per analogia a quanto disciplinato dagli artt. 23 e 810 c.p.c., che la mediazione debba svolgersi presso un organismo di mediazione sito nella stessa circoscrizione ove sorge l’edificio condominiale; ed anche su questo punto sarebbe utile una intervento integrativo del legislatore.

Non è poi chiaro quali siano le materie “condominiali” oggetto di mediazione obbligatoria.

Oggetto di mediazione sono sicuramente le impugnative di deliberazioni assembleari condominiali ed anche le azioni tese alla formazione o alla revisione delle tabelle millesimali.

Va chiarito che in materia di impugnazione di delibere resta, chiaramente, sospeso il termine per l’impugnazione stessa per il periodo necessario ad esperire il tentativo di conciliazione (quattro mesi).

Non dovrebbero essere oggetto di mediazione obbligatoria le eventuali cause che vedrebbero parte “passiva” il condominio contro un fornitore di servizi (di pulizia, di manutenzione dell’ascensore o di caldaie, di disinfestazione, ecc.) o contro le ditte che hanno eseguito lavori edili al fabbricato condominiale posto che la natura di tali vertenze è di mero recupero crediti.

Non sono oggetto di mediazione obbligatoria: i ricorsi per decreto ingiuntivo ex art. 63 disp. att. c.c. (ma anche le aste giudiziarie relative agli appartamenti dei condomini morosi), le procedure concernenti la nomina e/ o la revoca dell’amministratore del condominio, i procedimenti di cui all’art. 1104 del c.c..

Sono pure esclusi dal procedimento di mediazione obbligatoria i giudizi cautelari, le vertenze possessorie, i procedimenti per convalida di licenza o sfratto (di locali condominiali) fino al mutamento del rito, i procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi comunque a esecuzione forzata.

Sono parimenti esclusi i procedimenti di volontaria giurisdizione e/ o comunque camerali.

Inutile soggiungere che nemmeno sono soggetti alla mediazione obbligatoria le azioni civili spiegate come parti civili nel processo penale.

Una problematica a parte riguarda i procedimenti in cui sarebbero parti sia un condomino che il condominio per le problematiche attinenti ai conflitti di interessi ed ai quorum assembleari (soggetti alla cd. prova di resistenza).

Per la casistica assicurativa in materia di condominio si deve distinguere:

– tra quella relativa alla richiesta di indennizzi sulla base della polizza globale fabbricati che è comunque materia di mediazione obbligatoria perché la vertenza si basa su un contratto assicurativo;
– e quella in cui il condominio è parte invitata alla mediazione ma è opportuno che richieda che sia invitata alla mediazione anche la compagnia assicurativa per essere eventualmente manlevato (proprio per la polizza globale fabbricati).

Sembra invece pacifico che l’amministratore – come per la transazione – non possa sottoscrivere alcun verbale conciliativo se non autorizzato da specifica delibera condominiale che recepisca preventivamente ed integralmente il contenuto della mediazione.

Il problema, a questo punto, si sposta sulle eventuali maggioranze necessarie affinché si possa effettivamente partecipare alla mediazione e/o far sottoscrivere un verbale di conciliazione all’amministratore. Deve quindi essere verificata se la delibera “autorizzativa” alla conciliazione sia stata presa con il quorum (costitutivo e deliberativo) necessario.

Per le mediazioni concernenti la rinunzia ai diritti reali su parti comuni (a favore di un condomino o di un terzo) e/ o comunque atti di alienazione di parti comuni o di costituzione su di esse di diritti reali o per le locazioni ultranovennali è richiesto il consenso della totalità dei condomini. E ciò perché in tali atti rileva il diritto dei condomini uti singuli e non come partecipanti al condominio (ed infatti in tali casi è improprio anche parlare di delibera totalitaria o all’unanimità) e quindi tali atti non sono di specifica competenza delle assemblee condominiali (indipendentemente dalle maggioranze).

In caso di vertenze relative a pendenze economiche (es. riparto di spese condominiali oppure la definizione di pendenze col precedente amministratore) dovrebbero essere sufficienti le maggioranze ex art. 1136, comma 4 (ossia comma 2 per esplicito rinvio) c.c..

Chiaramente in cause che coinvolgono i singoli condomini contro il condominio dovrebbero essere verificati i quorum per i possibili conflitti di interessi e quindi con particolare riferimento degli stessi quorum alla cd. prova di resistenza.

Una ipotesi particolare e di difficile soluzione è quella relativa alle possibili vertenze tra l’amministratore ancora in carica ed il condominio posto che l’amministratore è l’unico rappresentante legale – sebbene pro tempore – del condominio.

In questo caso l’assemblea dovrebbe assolutamente delegare un terzo soggetto a rappresentare il condominio in fase di mediazione per ovviare al conflitto di interessi.

Quindi, come sempre, le future pronunzie della giurisprudenza colmeranno i vuoti legislativi; quasi a voler riaffermare che effettivamente la materia condominiale è regolata da una sorta di non meglio precisato “common law”.

fonte: www.mcmconciliare.com

Pubblicato in Senza categoria | Lascia un commento