Scritto da Dr.ssa Nadia Malangone*
La portata rivoluzionaria della mediazione civile e commerciale nel sistema giuridico italiano è tangibile: dal 20 marzo 2011 le controversie aventi ad oggetto le materie elencate all’art. 5 del D.Lgs. n. 28/2010 transitano obbligatoriamente nei procedimenti di mediazione che divengono, per queste stesse materie, condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
Se questo è l’aspetto più evidente del cambiamento (in quanto opera ed ha effetti sull’organizzazione e il concreto svolgimento dei procedimenti giudiziali) vi è un secondo aspetto, non immediatamente visibile ma di portata ben maggiore, in cui si manifesta la “ri-voluzione” della mediazione: con la previsione di un obbligo di legge a transitare al tavolo della mediazione, il legislatore ha segnalato[1] la necessità di una modifica di prospettiva (cognitiva) che in sintesi fa riferimento al cambiamento (culturale) dalla logica unidirezionale del giudizio dall’alto, alla logica circolare-dialogica dell’accordo condiviso.
La rivoluzione della mediazione – come qualsiasi rivoluzione che si definisca tale – coinvolge in diversi modi il linguaggio, essendo la lingua il luogo simbolico entro il quale si sviluppano – e sul quale hanno effetto – tutte le vicende storiche e sociali delle comunità umane.
Primo evidente tratto della rivoluzione è sicuramente l’uso distinto e spesso confuso di termini, neologismi e “appellativi” per definire la mediazione: prima conciliazione, poi mediazione, ma anche media-conciliazione[2] . La crescente produzione linguistica e la generale confusione terminologica diviene traccia di un momento di profonda trasformazione nella quale diversi gruppi sociali cercano una propria collocazione ed attivano processi di com-prensione[3] ed interiorizzazione. A poco sono servite le precisazioni terminologiche ad opera del legislatore che, nel distinguere tra mediazione come “processo” e conciliazione come “esito” dello stesso, sembra essere diventato vittima di se stesso e del proprio tecnicismo: la continua commistione tra linguaggio di senso comune e linguaggio tecnico, accresce il livello di ambiguità semantica. Vediamo in che modo:
1. la mediazione è profondamente diversa dal processo, essendo la sua “grammatica” e le sue logiche di funzionamento differenti da quelle tipiche del processo;
2. allo stesso tempo, la mediazione è “un processo” in quanto è “una serie di azioni ed operazioni tecniche dirette ad uno scopo”;
3. questo processo-diverso-dal-processo si realizza attraverso un procedimento (dove per procedimento si intende una “serie di atti finalizzati a un dato scopo”) che però rifiuta l’adesione alla logica procedimentale, essendo in primo luogo caratterizzato da una profonda informalità;
4. un’informalità o non-formalità che si realizza però in atti (domanda di mediazione e accordo di conciliazione) la cui forma, contenuto ed effetti vengono definiti con precisione nel dettato normativo: art. 4, commi 1 e 2 (forma e contenuto della domanda), art. 5, comma 6 (effetti della domanda), art. 11 (forma e contenuto dell’accordo), art. 12 (effetti dell’accordo).
La confusione terminologica è in parte ineliminabile, essendo i sistemi linguistici per loro natura vivi: la lingua registra i cambiamenti e ne diviene traccia e testimonianza non potendo, per sua stessa natura, impedire o definire in maniera aprioristica cosa un termine dovrà significare né in che modo e con quali sensi (significati specifici) dovrà essere utilizzato[4].
Su queste basi e per una serie di motivi che si andranno ad analizzare in seguito, appare necessaria una riflessione sul ruolo e sugli effetti della comunicazione in mediazione.
1. La comunicazione
Per rintracciare il significato etimologico del termine comunicazione possiamo riferirlo a:
1) il latino “communicare” che indica “mettere in comune, rendere comune,trasmettere”;
2) attraverso la terminazione -atio, che indica forme astratte di azione, determina la parola “communicatio” che indica letteralmente “messa in comune”;
3) che, a sua volta, deriva da commune(m) ed indica “che compie il suo incarico (munus) insieme con (cum) altri”.
In sintesi, per comunicazione intendiamo “l’atto del mettere in comune” e riconosciamo in questo modo il profondo legame semantico tra la comunicazione e la con-divisione. Infatti qualunque atto di comunicazione, altro non è che una forma (o un tentativo) di con-divisione di significati.
Quando comunico qualcosa a qualcuno, cerco di mettere in comune con il generico “Altro da me” ciò che intendo dire, il significato che attribuisco a una certa realtà, ad un oggetto oppure più in generale ad un mio pensiero. Questa idea di condivisione, di avvicinamento e progressiva messa in comune di aree di significato sembra però non essere molto diffusa nel “senso comune” a favore di un’idea di comunicazione come im-mediato ed automatico “trasferimento” di informazioni.
La comunicazione come processo di scambio di informazioni, organizzate in messaggi, tra un emittente ed uno o più riceventi trova fondamento nel cosiddetto modello classico della comunicazione, elaborato – da C.E. Shannon e W. Weaver[5], due ingegneri della Bell Telephone Laboratories – allo scopo di risolvere le difficoltà tecniche delle comunicazioni telefoniche. Il modello, detto di Shannon-Weaver o trasmissivo o lineare, si diffuse rapidamente, divenendo riferimento canonico per gli studiosi del settore. Senza affrontare nello specifico le rilevanti implicazioni di tale modello, qui si vuole rilevare un particolare effetto che la sua diffusione ha provocato sul modo stesso di intendere la “comunicazione”:
il termine, sostanzialmente neutrale rispetto al canale utilizzato, si è diffuso nel senso comune, connotato dal riferimento esclusivo all’uso del canale fonico-acustico[6]. Detto in altri termini, si ha comunicazione quando un soggetto parla ed uno o più soggetti ascoltano[7].
Il significato ristretto di comunicazione si è dunque articolato in un senso restrittivo del termine: quello della comunicazione come strumento per la trasmissione di significati e informazioni organizzati in messaggi, da parte di un Ego-fonte verso un Alter-destinatario.
All’opposto, ritroviamo il senso allargato del termine comunicazione, che si richiama al modello di comunicazione interattiva ed ai principi della Scuola di Palo Alto (pragmatica della comunicazione)[8]. In particolare, il primo assioma della pragmatica della comunicazione, stabilisce che «non si può non comunicare», sottolineando in tal modo, che non esiste un modo canonico, né un canale specifico per comunicare: «I dati della pragmatica non sono soltanto le parole, le loro configurazioni e i loro significati (che sono i dati della sintassi e della semantica), ma anche i fatti non verbali concomitanti, come pure il linguaggio del corpo. Alle azioni di comportamento personale occorre inoltre aggiungere quei segni di comunicazione inerenti al contesto in cui ha luogo la comunicazione. È chiaro dunque che in questa prospettiva tutto il comportamento, e non soltanto il discorso, è comunicazione, e tutta la comunicazione – compresi i segni del contesto interpersonale – influenza il comportamento»[9].
Dunque, tutto comunica, non solo le parole, anche i gesti, gli oggetti, gli spazi tra le cose e le persone, e … i silenzi[10].
A ciò va aggiunto un secondo ulteriore elemento di novità rispetto al modello della comunicazione lineare, che assume rilevanza per il nostro discorso. In base al secondo assioma della pragmatica della comunicazione: «Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto (report) e un aspetto di relazione (command), di modo che il secondo classifica il primo, ed è quindi meta comunicazione »[11], il che significa sottolineare che la comunicazione è sempre anche relazione tra un Ego e un Alter. Tale relazione è più di un semplice legame perché, comunicando su come la comunicazione vada intesa, assolve una funzione di significazione.
La relazione tra Ego e Alter, attivata dalla comunicazione (strumento) diviene interazione (processo) che produce com-prensione, come costruzione e co-istituzione di significato. Dunque, la comunicazione è strumento di relazione e processo di interazione (tra un Ego e un Alter) che produce significati condivisi.
Detto altrimenti, la comunicazione è relazione tra “aree di significato” che, a sua volta, costruisce significato in un processo interattivo.
2. La comunicazione in mediazione
Se la comunicazione non è un trasferimento diretto ed im-mediato di informazioni allora:
– non è un processo automatico (ma sempre condizionato da una serie di elementi tra cui la soggettività dei parlanti, il canale utilizzato, il mezzo di trasmissione dei messaggi, ecc.);
– non è predeterminabile nei risultati e negli effetti;
– non è indipendente dal contesto in cui si realizza;
– non è mai priva di una dimensione relazionale[12].
Ed è in particolare sulla dimensione della comunicazione nel suo aspetto di relazione che si concentra l’interesse di chi, all’interno di un più ampio discorso sul ruolo e le competenze del mediatore, debba prendere in considerazione le peculiarità del contesto nel quale il mediatore si trova ad operare.
La mediazione, nel suo momento tipico rappresentato dall’incontro di mediazione, si prefigura in termini di “spazio di interazione” prevedendo per definizione l’incontro diretto[13] tra il mediatore e le parti coinvolte in una controversia.
A queste si aggiungono poi, se presenti[14], gli avvocati investiti del ruolo di consulenti delle parti. Ci troviamo in una tipica situazione comunicativa di tipo interpersonale (faccia-a-faccia)[15] che rappresenta una forma (quella spontanea) in cui si realizza il cosiddetto linguaggio parlato[16].
Questo tipo di comunicazione possiede aspetti peculiari che le analisi semiotiche segnalano con grande precisione. In sintesi, e nell’economia del presente articolo, possiamo ricordare:
– la linearità o “continuità”: “tipicamente la comunicazione orale si sviluppa in uno spazio lineare”, secondo la “catena fonica, in un modo tale che ad un suono ne segue un altro, sia nella produzione che nella ricezione”[17];
– l’immediatezza: fa riferimento alla necessaria compresenza di parlante e interlocutore/i nel contesto di enunciazione e comporta la bassa tollerabilità di silenzi e pause ed il rispetto del ritmo della particolare situazione comunicativa. Da queste due caratteristiche generali, ne discendono altre che ci aiutano a definire e comprendere l’estrema complessità “comunicazionale” nella quale il mediatore si trova ad operare;
– la minima possibilità di pianificazione, ad indicare la difficoltà di organizzare preventivamente il proprio turno di parola in tempo reale[18];
– l’impossibilità di cancellazione: che comporta, di fronte ad un “errore” unicamente la possibilità di ricorrere a tecniche di riformulazione dei messaggi, alla parafrasi, all’autocorrezione, ecc. (si parla a questo proposito di “strategie di autoriparazione”);
– la non permanenza del messaggio: poiché il parlato, a meno che non venga registrato, non lascia traccia, affidandosi unicamente alla memoria[19];
– l’incidenza di tratti paralinguistici (fenomeni vocali quali variazioni di tono, energia, sonorità) che incidono sull’interpretazione del significato degli enunciati[20];
– il ricorso frequente (e spesso inconsapevole) a mezzi non linguistici come sguardo, movimenti del capo, posizione del corpo, gesti, movimenti della bocca, delle mani, ecc.;
– la possibilità di feed-back da parte dell’interlocutore ossia di “risposte di ritorno”, letteralmente “effetto di un evento su chi lo ha generato, retroazione” che, in processo di comunicazione indica l’”effetto retroattivo di un messaggio su chi lo ha prodotto”. Il ruolo del feed-back nei processi di interazione comunicativa è centrale allorché si identifichi il dialogo/discorso come l’effetto di un processo di co-produzione che coinvolge i vari partecipanti all’interazione. La conversazione diviene esito di una collaborazione, di un “negoziato”[21].
Tutte le caratteristiche elencate, entrano di fatto all’interno del procedimento di mediazione e, in particolare, nel momento “topico” dell’incontro tra il mediatore e le parti che si configura come spazio ad alta intensità comunicativa e relazionale.
La simmetria e reciprocità di ruolo tra i partecipanti all’atto comunicativo (che divengono emittenti, poi destinatari e nuovamente emittenti, in un’alternanza continua e non predeterminabile), la necessaria spinta all’adeguamento reciproco “in corso d’opera” (con feed-back, riformulazioni, domande ed esplicite richieste di disambiguamento), l’alternanza nei turni di parola, il ricorso a forme non verbali di comunicazione, i silenzi, ecc. … sono elementi tipici dei meccanismi di comunicazione interpersonale che è necessario “presidiare” (non solo esperire[22]) per costruire e gestire spazi di comunicazione realmente efficaci.
3. Conclusione
Parlare di abilità comunicative in senso proprio ci impone una riflessione:
ciascun essere umano, in quanto tale, può essere definito “esperto” di comunicazione, nel senso che ne ha esperienza. Le prime forme di comunicazione risalgono infatti agli scambi (non linguistici) tra la madre e il neonato quando la seconda interpreta e attribuisce arbitrariamente un significato al pianto (linguisticamente non elaborato) del primo[23].
L’esperienza però è cosa ben diversa dalla competenza, richiedendo quest’ultima un’analisi critica dei meccanismi e dei fondamenti teorici su cui si basano le esperienze.
I parlanti comunicano producendo enunciati o frasi, segmenti reali di discorso, sintatticamente incompleti, spesso ridotti (anche composti da una sola parola)[24]. Essi assumono il loro senso, o significato reale in rapporto ai diversi contesti di riferimento ed alle specifiche circostanze di produzione. La lingua parlata è la materia prima del “processo” che attraverso la mediazione è diretto alla conciliazione. Il responsabile di questo “processo” è il mediatore che, in quanto professionista della mediazione deve – per il suo essere esperto di tecniche di comunicazione e di gestione dei conflitti – acquisire competenza teorica e pratica su questi aspetti.
La competenza comunicativa richiesta a chi gestirà in prima persona gli incontri di mediazione riguarda «la capacità ed il grado di abilità possedute […] nel formulare e nel recepire messaggi nell’ambito di una relazione interpersonale»[25]. Ciò implica non solo il possesso di una competenza linguistica, ma anche di competenza paralinguistica (nell’uso e nell’interpretazione di tono, volume della voce, ritmo dell’eloquio, ecc.), di competenza cinesica (integrare la produzione verbale con segnali non-verbali e interpretare tali “integrazioni” che si riferiscono alla mimica, ai gesti, ai movimenti, all’espressione del volto, ecc.), competenza prossemica (come capacità di mantenere e modificare la distanza fisica con l’interlocutore in base al contesto in cui avviene, competenza pragmatica (come capacità di modulare il proprio comportamento comunicativo in base al contesto, agli interlocutori e, in generale agli obiettivi che si vogliono ottenere).
Quanto detto va letto in termini critici, propositivi e proattivi: il mediatore è infatti un “tecnico”, «non […] un essere soprannaturale dotato di misteriosi poteri»[26]. Questo comporta l’obbligo (e la possibilità) di «essere specificamente preparato a un’attività che, seppure delicata, e spesso collocata più sul versante dell’arte che su quello della scienza, ciononostante risulta trasmissibile in tempi abbastanza brevi […] e la cui qualità può venire valutata oggettivamente […]»[27].
[1] Ha segnalato ed ha “imposto” un cambiamento essendo la previsione dell’obbligatorietà uno dei modi in cui si poteva giungere ad un così forte ribaltamento di logiche: da quella processuale dell’attribuzione del torto e della ragione, a quella negoziale e dialogica della condivisione. Senza voler entrare nel merito della questione, va segnalato che al momento è ancora accesa la discussione sulla pretesa incostituzionalità della previsione dell’obbligatorietà: sul punto si legga CALIFANO G.P., Procedura della mediazione per la conciliazione delle controversie civili e commerciali, Cedam, Padova, 2011.
[2] Si legga in proposito un interessante articolo su www.infooggi.it/articolo/mediazione-civilerivoluzione-o-fallimento/10083/ in cui si riflette sugli esiti della confusione terminologica in mediazione. Altri approfondimenti sul tema anche in BOVE M. (a cura di), La mediazione per la composizione delle controversie civili e commerciali, Cedam, Padova, 2011, p. 73, con un paragrafo dedicato a “La questione terminologica”.
[3] Comprendere deriva dal latino cumprehendere, composto da cum (con) e prehendere (prendere) ed indica “contenere, racchiudere, includere” ma anche “intendere, penetrare con la mente”.
[4] Si pensi al ruolo del vocabolario: non è un elenco di prescrizioni sull’uso corretto dei termini (non solo) ma anche e sempre più un “registratore” di usi frequenti: nell’aspetto sintattico e grammaticale, più vicino alla logica normativa si descrive l’uso corretto delle forme linguistiche; nell’aspetto semantico e pragmatico, si registra ciò che la lingua diviene nell’uso che di essa fanno i parlanti. Essendo viva e dinamica, la lingua non è in alcun modo predeterminabile. Anzi, la “forza” della lingua sta proprio in questo: “nella lingua, e soltanto nella lingua, è possibile ‛lottare con l’inesprimibile finché si arrivi a esprimerlo’(Kierkegaard)”. Cfr. HJEMSLEV L.T., I fondamenti della teoria dei linguaggio,Torino 1968, p. 117.
[5] SHANNON W. E WEAVER C.E., La teoria matematica delle comunicazioni, Etas Kompass, Milano, 1971.
[6] In realtà la diffusione del modello trasmissivo della comunicazione, ripreso e rielaborato da vari autori, ha provocato una serie di altri effetti sul modo di intendere i processi di comunicazione: l’idea della linearità del processo, la posizione dominante dell’emittente rispetto ad un ricevente passivo, la comunicazione come mezzo di controllo e persuasione. Il modello, pur arricchito e modificato dai contributi di vari autori, ha comunque mantenuto centrale l’idea della comunicazione come trasmissione. Cfr. VOLLI U., Il libro della comunicazione, Il Saggiatore, Milano, 1994; MAZZOLI G., Profili sociali della comunicazione e nuove tecnologie, Franco Angeli, Milano, 1992; JAKOBSON R., Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano, 1966; WOLF M., Teorie delle comunicazioni di massa, Strumenti Bompiani, Milano, 1992.
[7] Anche se “in un’ottica evolutiva, non è casuale che la specie umana abbia selezionato la voce come sostanza privilegiata del proprio linguaggio primario. Sono, infatti, nostre precise caratteristiche biologiche (la stazione eretta, la necessità di comunicare anche al di là di ostacoli fisici, l’impossibilità di vedere al buio) che hanno portato gli umani a elaborare le lingue così come le conosciamo” ed a privilegiare il canale fonico-acustico per comunicare. Cfr. GENSINI S. (a cura di), Manuale della comunicazione, Carocci, Roma, 1999.
[8] WATZLAWICK P.-BEAVIN J.H.-JACKSON D.D., Pragmatica della comunicazione. Studio dei modelli interattivi, della patologia e dei paradossi, Astrolabio, Roma, 1971.
[9] Ibidem.
[10] «Tacersi, non rispondere, restare in silenzio, sono scelte di quella che in età barocca si disse “muta eloquenza”, mezzi per significare alcunché, col massimo di informalità». Cfr. DE MAURO T., op. cit., 1995.
[11] Cfr. WATZLAWICK P.-BEAVIN J.H.-JACKSON D.D., op. cit.
[12] Anche una persona che stia seduta in treno, leggendo un giornale, con gli occhi bassi e magari una borsa poggiata sul sedile accanto, pur in assenza di parola, sta evidentemente comunicando, ci sta dicendo pur senza parlare, che gradirebbe non interloquire con altri passeggeri. E, ad un osservatore più scaltro, potrebbe dire anche di più come si accennerà nel prosieguo. Per approfondimenti si veda RAFFAGNINO R.-OCCHINI L., Il corpo e l’altro. Imparare la comunicazione non verbale, Guerini, Milano, 2000.
[13] In relazione agli scopi del presente contributo, non si prenderà in considerazione l’eventualità di un incontro di mediazione in via telematica (ad es. in video-conferenza o, in generale, attraverso le comunicazioni on-line) che, pur previsto dal legislatore italiano (si fa riferimento in questo caso alle ODR, Online Dispute Resolution) presenta tratti e peculiarità, in termini di dimensione comunicativa, che meritano un approfondimento specifico. Si segnala a questo proposito PIERANI M.-RUGGIERO E. (a cura di), I sistemi alternativi di risoluzione delle controversie online, Giuffrè, Milano, 2002; DE BONIS M.E., La mediazione attraverso modalità telematiche, in BESSO MARCHEIS C. (a cura di), La mediazione civile; MARUCCI C., La conciliazione nel mondo virtuale di internet, in SOLDATI N. (a cura di), La nuova mediazione e conciliazione.
[14] La presenza dell’assistenza tecnica in mediazione è facoltativa ma, nella prassi, è una regola. Si potrebbe ipotizzare anche una motivazione sociale ed antropologica alla presenza dell’avvocato in mediazione: «[…] l’avvocato si presenta come un giurista “pacificatore” e “riconciliatore”, nelle cui mani il diritto attenua le sue tendenze formaliste e conflittuali e si fa istituzione informale di mediazione. L’avvocato viene qualificato […] “giurista preventore”, ma non solo. È soprattutto “esperto in strutture”, ovvero “giurista costruttore”, vale a dire “architetto di patti sociali”». Cfr. LA TORRE M., Il giudice, l’avvocato e il concetto di diritto, Rubettino, Soveria Mannelli (CZ), 2002.
[15] La dimensione comunicativa del linguaggio parlato, che Goffman definiva “grammatica della conversazione”, è oggetto di studio semiotico specifico ed anzi, nell’ampio panorama degli studi sulla comunicazione si è registrato un generale orientamento verso la dimensione “pragmatica”, passando dallo studio dei segni (come elementi costitutivi minimi dei processi di comunicazione) allo studio dei testi (come insiemi complessi di segni) in quanto concreti oggetti di comunicazione. Nel passaggio dal segno al testo si segnala il riconoscimento della complessità dei processi di comunicazione e di quel particolare tipo di comunicazione, quella interpersonale, della quale ciascun essere vivente è “esperto” (nel senso che ne fa e ne ha esperienza diretta). GOFFMAN E., The neglected situation in American Anthropologist, vol. 66, 1964, trad. it., Linguaggio e contesto sociale, Il Mulino, Bologna, 2000.
[16] Per “parlato” possiamo intendere «Una varietà di lingua caratterizzata dal canale fonico uditivo e dal contesto sociale essenzialmente dialogico». Cfr. BAZZANELLA C., Le facce del parlare, La Nuova Italia, Firenze, 1994, p. 12.
[17] Al contrario, nello scritto, caratterizzato dalla discretezza o non-continuità, possiamo, sia come autore che come lettore del testo, lavorare su singole componenti, tornare indietro o spostarci in avanti nel testo, senza necessariamente seguire l’andamento lineare. Cfr. BAZZANELLA C., op. cit.
[18] “Questa difficoltà aumenta in situazioni dialogiche, in cui l’argomento di conversazione viene continuamente ristabilito, e in cui incide l’interazione con l’interlocutore, interrompere, segnalare disaccordo, ecc.”. Cfr. BAZZANELLA C., op. cit.
[19] L’impossibilità di “registrare” se non graficamente (per mezzo degli appunti) in mediazione comporta la necessità, da parte del mediatore di predisporre strumenti utili a tenere traccia di quanto avviene e viene detto nel corso dell’incontro di mediazione e, allo stesso tempo, l’obbligo per il mediatore di esercitare le proprie capacità mnemoniche. Con ciò si vuol intendere in particolare di abituarsi (ed esercitarsi) all’uso di tecniche in grado di mantenere alta la soglia dell’attenzione del mediatore: un esempio semplice ed efficace è rappresentato dal costringersi a riassumere periodicamente ciò che si è ascoltato.
[20] Si immagini un enunciato semplice “basta” che, a seconda del modo in cui viene pronunciato, può indicare: 1. “smettila/smettetela” (una maestra di scuola che richiama con decisione al silenzio); 2. “non ne posso più//non ce la faccio più” (un commensale che chiede all’ospite di non servirgli altro cibo nonostante ne apprezzi il valore culinario); 3. “forse è il caso che la smetti, non mi sembra un comportamento adatto alla situazione” (la madre che richiama il figlio ad un comportamento adeguato alla situazione: sta raccontando barzellette a casa di ospiti molto formali).
[21] La comunicazione viene definita da Ugo Volli, luogo di conflitto e frutto di un negoziato, evidenziando che gli atti comunicativi siano, in ultima analisi, processi dinamici tra emittenti-produttori-di-senso e riceventi-che-attribuiscono-senso. Cfr. VOLLI U., Il Nuovo Libro della Comunicazione, Il Saggiatore, Milano, 2007.
[22] Sebbene ciascun individuo, in quanto “essere sociale” è esperto di comunicazione, nel senso che ne ha esperienza e ne esperisce, sin dalla nascita, effetti e meccanismi.
[23] Si pensi, a titolo puramente esemplificativo, che è a questa fase dello sviluppo che si fa risalire l’apprendimento di una delle regole conversazionali di base, quella dell’alternanza dei turni di parola.
[24] È interessante, ad esempio, considerare che una singola espressione quale: “Shh!” può essere considerata un testo se inserita in un contesto appropriato, ossia se ha come effetto quello di ottenere il silenzio.
[25] Cfr. RAFFAGNINO R., OCCHINI L., op. cit.
[26] CASTELLI S., La mediazione. Teorie e tecniche, Cortina, Milano, 1996.
[27] Ibidem.
* Responsabile marketing e Comunicazione, Cultore della materia “Teoria e Tecniche della comunicazione pubblica” presso l’Università degli Studi di Salerno, Mediatore Specializzato.
Fonte: http://www.mcmconciliare.com/articoli-mcm-adr-conciliare/178-la-parola-al-mediatore-il-ruolo-della-comunicazione-in-mediazione.html